mercoledì 21 marzo 2018

quattro inediti di Antonio Bux

dalla raccolta inedita “Sasso, carta e forbici” (2017)


Carta

II

Ti ho trovata morta sulle scale. 
Era ferragosto, nella fretta di vedermi
sei inciampata nell'ultimo scalino
e cadendo all'indietro così 
come sei nata, in un salto di luce
sei andata via, con i vicini accanto
mormorando sul tuo corpo mezzo rotto.
È stata l'ultima volta che ho pianto,
poi c'è stato un muro, specie quando
ti ho vista rialzarti dal marmo 
della camera ardente venirmi contro
a dire: sei tu che stai sognando 
la mia morte
; così te ne sei tornata 
sdraiata a dormire. Fu dopo quella notte 
che tu attraversasti il portone 
ogni maledetto giorno: a casa ti vedevo 
salire le scale con me, mentre raccontavi 
la tua giornata all'ospedale, tra un paziente 
e una palpata del primario, e io geloso, 
col tuo bisturi gli avrei tagliato via tutto; 
ma tu mi frenavi, dicevi: è solo lavoro, 
non è niente, torniamo a casa, amore, 
è per il bene di nostro figlio
. Di quale figlio 
tu parlassi non mi era proprio chiaro, 
ma lì per lì feci finta di avercelo un bambino
per non deluderti, almeno da morta. Sono passati 
dieci anni e ogni giorno facciamo quelle scale, 
questa volta senza inciampare, e ogni giorno
provo sempre a fare finta di non vedere, chissà 
uno scalino, o il passamano per venirmene con te 
a passeggiare là in alto, dove forse abbiamo un figlio.

* * *

Una spora da Cernobil

I

Sassi, fibre, forze della terra,
anni che non sono più uomini
vicini a come si perde un volto.
Sono stati qui, erano tanti,
abitavano stanze, senza sapere,
lavoravano a fare vita.

Ma ora è vita e non è mai, vita
ora che è qui, a lavorare,
a far da sola,
sola il tempo e sola la solitaria
roccia che nell'acqua piange,
e piange tutti i ricordi.
I cassonetti sono caduti, colonie
di insetti e bisce, cicorie
qui a fare casa e spazio;

e il manto stradale che era i semafori
accesi per sempre e la luna
come a dividere ancora,
come si andasse da un'altra parte,
da un'altra parte a cercare facce
nuove, per poter restare.

Ma il segnale dice che non si può,
no, dice che la terra è morta
come i morti dicono cos'era

essere tempo, senza mai vivere.

E gli aerei che pure passano sopra
vedono una croce
al di là della chiesa e ombre
piene muovere il prato.

(Che sarebbero uomini e invece sassi,
donne coi loro figli e sono pietre,
fibre come pietre e forze della terra).

* * * 

Forbici

I

Il gioco era chiedere, dire montagne, 
fare onde coi passi, chiari sulle acque
- e le onde respingevano future -  

ma fate disegni calmi, diceva la scuola, 
più calmi disegnate le onde: così uno 
diventava bambino, con l'acqua

sporca, come il corpo addosso,
con la poca acqua caduta dai sogni 
che ora è corpo e cenere, o fuoco, 

o è corpo che si chiede esistere, 
o resistere se è gioco quel sasso
a tirare, o a esser tirato, e creare

un disegno per bucare e dire carta, 
o per tagliare con le forbici
a mani piene, pietre immaginarie. 

(E questo gioco era montagne
alte, immaginarie erano vite 
così piene che si era bambini
da soli, a disegnare le onde).

Non che sia abitare questo
prima di vivere, non che sia
più gioco o vanità la foresta

che si placa con gli anni, o uno
a sé davanti che gioca, e perde, 
o solamente si trova schierato.

XI


Ero nato, ne sono sicuro. Ma non
nei fogli, più dentro l'acqua genitale
di mia madre, quella innaturale,
e mi ha fatto così, come la neve,
che cade solo se accolta.
Ero nato, in un Nord del Sud,
o in Sud del Nord, di sicuro al centro
dopo l'estate, quando Ottobre era caldo
e il magnete della terra premeva
verso il caldo destinale, del suo globo.
E così fui nato, ma senza prospettiva
di diventare un bel divoratore
di piante, di maiali, di urine bianche
trasformate. È così che sono nato,
dentro uno stivale, dalla pelle bucata,
e sono nato povero, ma con forma regale,
mi sono comprato una fede, una sposa,
una frase che è mia. E dentro la mia città
ho creduto le città come gabbie, come nidi
ma non solo di gabbie, anche di aurore.
Ed è anche per questo che sono nato,
per veder scritto dove è niente, per sapere
se quel niente può essere fatto, come un volto
che dice sono Dio, ma è solo il volto
di un io allo specchio. E così me ne vado
nello specchio di tutti i volti, e nelle montagne
che sono solo mie, e nei venti e nei mari,
e nei fiumi, quelli miei e di tutti, perché è lì
che dovremo annegare. È così che si nasce
e si muore, come insieme, uniti
allo stare del mondo. Allora nasceremo
di nuovo forse, nasceremo più forti, più chiari,
e leggeremo altrove i nostri volti, scolpiti,
e le nostre mani, magari scriveranno meno,
e forse faremo grandi i cieli
di lotte, e grandi sorrisi sì, sicuro
qualcosa faremo. Perché si nasce
per questo, per fare. E io ho fatto presto,
ho scritto questa poesia.




Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato vari libri, sia in italiano, tra i quali Trilogia dello zero (finalista premio Lorenzo Montano, vincitore premio Minturnae), Kevlar (vincitore premio Alinari), Naturario (selezione premio Viareggio), che in spagnolo (23 - fragmentos de alguien, El hombre comido, Saga familiar de un lobo estepario). Suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue e antologizzati in opere collettive come InVerse: Italian poets in translation, a cura della John Cabot University. Ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, su tutti Leopoldo María Panero. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie, oltre che una collana per la casa editrice RPlibri e due collane per le Marco Saya Edizioni.

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