giovedì 26 gennaio 2017

quattro poesie di Gian Mario Villalta

La casa vecchia

La gru andava via con un giro lento dietro i nocciòli.
Era settembre. La casa era quasi finita
e sarebbe rimasta così per sempre,
con i ferri ricurvi in terrazza,
la malta grezza ai lati della scala.

Il rampicante rischiara la parete,
ricopre il muro, la rete dell’orto.
Lo zio era un ragazzo quando è morto.
Poi altre estati calcinarono le vertebre,
inverni gelarono i nervi del grande corpo contorto
di lobie, stalle, tettoie.

Le automobili dalla statale
proiettano a lampi sopra il letto
il negativo delle persiane
prima di addormentarmi.

Inizio sempre da qui, lo sguardo fisso
nel buio: ricostruisco la casa vecchia.
E mi inabisso
con i visi e le mani che si pensano,
proprio quando è il momento di riunire
tutti in cucina, con le voci che feriscono
per proteggere, mentono per salvare.

* * *

Da madre a figlio

Le palpebre chiuse, piano, senza stringerle,
che si perda la memoria della luce.
Adesso apri e non guardare niente.
Lentamente trova l’ombra (ce n’è sempre),
trova una linea, un contorno sullo sfondo.
Adesso guardati le mani. Se le vedi,
calcola la distanza che separa
la loro forma dalle sagome più scure:
ora trasforma il vuoto in volume.

Avrei voluto insegnarti un bene grande,
l’acqua che nasce, le nuvole selvagge
sopra i campi profumati dai sambuchi.
Avrei voluto il tempo di conoscere
il mio cuore che ti aiutava a crescere.

Ma non c’è tempo. Lentamente, trova l’ombra,
trova una linea, trasforma in orizzonte
la distanza tra un’ombra nera e il fondo.
Posso insegnarti a vedere al buio.
Non c’è mai tempo, prova adesso, prova.

* * *

Vero viso

Un viso, nell’opera degli anni, quando si compie?
Uscendo dall’adolescenza, quando pare fermarsi
per la prima volta, dopo tante prove e i tentativi
di assomigliare a un parente, o a un amico, falliti?
Oppure quando passati i quaranta anni,
nel peso delle palpebre, nell’esimersi delle labbra,
nella tensione delle narici, il carattere,
le manie, vengono fuori, i vizi, la memoria
che adesso occupa il suo presente?
O quando, prima della devastazione, vi si imprime
l’ultima forma, semplice, riassumibile in poche linee
essenziali, l’effigie, la caricatura?

* * *

Sera

La luce si alza verso il cielo sopra le luci
e il buio dolce degli edifici
abbraccia a lungo lo sguardo.
La luce si alza con un respiro
e promette a tutti un segreto, quiete profonda, pianto.
Passano una sull’altra
facce nelle auto che incroci,
le guardi, a cosa appartieni questa sera, a chi parli?
La lingua perduta degli stormi
che alti si adunano nella luce.
La lingua dei perduti per una parola non detta,
per una parola distorta pervenuta all’orecchio.
Per una volta non sia la ragione o la colpa,
chiama tu, pronuncia le parole che più non hai detto.
Non c’è vergogna se trovi nel cielo di questa sera
fiducia in qualcosa che non conosci,
e non la vita che si sogna,
ma qualcosa di tuo nella vita che vedi.
Adesso componi il numero, adesso chiedi.

(Da "Vanità della mente", Mondadori 2011)

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