Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy), di John Schlesinger (U.S.A., 1969); con John Voight e Dustin Hoffman; 113 min.
(Premio Oscar 1969 come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale).
(Premio Oscar 1969 come miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale).
Punto primo: la circolarità.
Il film si apre con un Joe Buck
smagliante, bardato con le sue giacche a frange e le sue camicie
ricamate, che prende il Greyhound per New York. Si chiude con un Joe
Buck terrorizzato, in un'anonima camicia a quadri giallo canarino, che sorregge il
cadavere dell'amico mentre l'autista del Greyhound rassicura i
passeggeri che tutto è a posto e li porta verso il mare di
Miami.
Già questo sarebbe da Oscar.
Già questo sarebbe da Oscar.
Punto secondo: l'Oscar.
Nel 1969, vince l'Oscar (tre Oscar!) un film cupo,
sardonico, pessimista, per di più classificato come X-Rated (solo per adulti), che per la maggior parte si svolge in baretti
lerci, appartamenti luridi infestati dagli scarafaggi, strade
urbane popolate di reietti, e che insomma è una caustica negazione del
Grande Sogno Americano.
O tempora! O mores!
Punto terzo: il doppiaggio.
Ecco, non per dire che io, sì,
insomma, so le lingue, ma il film l'ho visto in inglese (con i
sottotitoli pure in inglese). Ed è tutto un altro pianeta.
Nel doppiaggio italiano, a parte il fatto che ovviamente si perde il marcato accento texano di Joe, ma Ferruccio
Amendola (pace all'anima sua) regala a Hoffman/Ratso un petulante accento pseudonapoletano, fin
troppo tracotante e sicuro di sé. E la voce, in fin dei conti, è
sempre quella di Ferruccio Amendola: se chiudi gli occhi non vedi
Hoffman (o De Niro, o Stallone), vedi Ferruccio Amendola. Dustin
Hoffman, invece, si inventa una vocina chiocchia, sottile, nasale
(veramente da “ratto”), che ispira allo stesso tempo fastidio e
pietà.
La prova di Hoffmann è immensa. Intendiamoci, anche Voight è bravissimo nel caratterizzare questo braciolone che parte alla conquista del mondo e si becca solo mazzate sulla testa, ma Hoffman – ripeto – è su un altro pianeta.
La prova di Hoffmann è immensa. Intendiamoci, anche Voight è bravissimo nel caratterizzare questo braciolone che parte alla conquista del mondo e si becca solo mazzate sulla testa, ma Hoffman – ripeto – è su un altro pianeta.
Punto quarto: l'omosessualità.
Nel 1969, l'omosessualità è una cosa
che si fa di nascosto, in cinema di quart'ordine, in topaie
sgangherate, e i gay sono studentelli frustrati con gli occhiali a fondo di bottiglia, o
ripugnanti vecchiardi con manie sadico-religiose.Il linguaggio stesso è apertamente
omofobico: jackies, faggots, tuttifrutti (non so come siano stati
resi in italiano).
Altri tempi (per fortuna).
(Ah già, la trama: ma quella, presumo,
la saprete tutti.
Il ragazzone Joe Buck sbarca a New York, convinto che lì tutte le donne cadranno ai piedi dello stallone texano con gli stivali e la giacca a frange. Invece si trova a far combriccola con Rico “Ratso” Rizzo, ladruncolo da quattro soldi, truffatore, e per di più tisico, che nel suo appartamento abusivo sogna di rifarsi una vita sotto il sole della Florida. Ecco, direi che la trama più o meno è tutta qui. Basta e avanza.)
Il ragazzone Joe Buck sbarca a New York, convinto che lì tutte le donne cadranno ai piedi dello stallone texano con gli stivali e la giacca a frange. Invece si trova a far combriccola con Rico “Ratso” Rizzo, ladruncolo da quattro soldi, truffatore, e per di più tisico, che nel suo appartamento abusivo sogna di rifarsi una vita sotto il sole della Florida. Ecco, direi che la trama più o meno è tutta qui. Basta e avanza.)
1 commento:
Un film forse un po' invecchiato ma indimenticabile, anche per la musica struggente di John Barry e la canzone cantata da Harry Nilsson, un cantautore meno famoso di quanto merita, sotto i titoli di testa.
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