Alessandro Portelli, Canoni Americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, Donzelli 2004 (375 pp., € 23,50)
Ah, l'America, l'America. La si può amare, odiare, esaltare, criticare, ammirare, desiderare, temere, ma non si può far finta che non esista. Perché gli Stati Uniti d'America sono, che lo vogliamo o no, il centro (politico, culturale, economico, militare, ideologico) del mondo in cui viviamo.
Questa bella raccolta di saggi affronta l'America da un punto di vista che è, apparentemente, solo letterario, o lato sensu culturale: i capitoli parlano di romanzi (La lettera scarlatta, Huckleberry Finn, Furore, Il giovane Holden, Underworld), di film (Fa' la cosa giusta), di canzoni (uno, bellissimo, è dedicato a Bruce Springsteen). Lo scopo è esplorare il “canone” degli autori americani, dimostrando come in realtà esso sia composto di molti canoni paralleli, spesso nascosti, di come sia insomma plurale, molteplice, non-unitario.
Ecco quindi che insieme ad Hawthorne, Melville ed Henry James ci sono le voci degli afroamericani (le slave narratives, Frederick Douglass, Toni Morrison, Spike Lee) e quelle dei nativi; ecco che in Huckleberry Finn emerge, accanto a quella dell'eroe, la figura del nero Jim, con la sua umanità sempre in pericolo di essere negata; ecco che, dalle sacche più arcaiche della geografia, emergono le figure inquietanti, semi-umane, addirittura aliene, degli hillbillies; ecco che dietro la cultura scritta si profila una cultura orale ricchissima e sfuggente, che la innerva e spesso la contraddice.
L'America che emerge è la terra promessa e insieme la terra della dannazione, il “paese delle opportunità” e il paese dell'oppressione, la più grande democrazia del mondo e, allo stesso tempo, il paese costruito su due peccati originali: il genocidio degli indiani e la schiavitù dei neri.
Insomma, il discorso di Portelli (professore di letteratura americana alla Sapienza, ma anche studioso di storia orale, critico musicale e opinionista per il Manifesto) è sempre, più o meno apertamente, politico.
E infatti il libro si conclude con un saggio che analizza i discorsi di Bush nei quali veniva teorizzata la dottrina della “guerra preventiva”, non solo smontandone la logica, ma anche e soprattutto individuandone i legami, più o meno impliciti, con la lunga storia politica e culturale dell'America.
Vivamente consigliato a chi cerca una chiave per penetrare in quel grande enigma che si chiama Stati Uniti d'America, al di là dei facili schematismi, degli slogan, dei facili amori e degli ancor più facili odii.
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