lunedì 2 febbraio 2009

pensare e urlare


"Nessuno riuscirà mai a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano tutte insieme la stessa cosa".
(George Brassens)

recensioni in pillole 6: "Frigidaire"


Vincenzo Sparagna, "Frigidaire. L'incredibile storia e le sorprendenti avventure della più rivoluzionaria rivista d'arte del mondo", Rizzoli (BUR), 2008

Diciamo la verità: quando si pensa a "Frigidaire", si pensa sempre al gruppo di geni delle "nuvole parlanti" che ne fecero la rivista di fumetti degli anni '80: Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Massimo Mattioli, Filippo Scozzari. Già ci si dimentica un po' di Stefano Tamburini, che pure ne fu il creatore grafico e una delle anime più inventive e vulcaniche. Si tende anche a non tenere conto dell'enorme numero di artisti che vi pubblicarono: Silvio Cadelo, Marcello Jori, Giorgio Carpinteri, Igort, Lorenzo Mattotti, Pablo Echaurren, Giuseppe Palumbo, Magnus, Muñoz & Sampayo eccetera eccetera (decine, se non centinaia di nomi).
Ma, quasi sempre, si dimentica che dietro a tutti c'era Vincenzo Sparagna. Lo si dimentica, probabilmente, perché di "Frigidaire" Sparagna era (anzi, è) l'editore, cioè colui che, secondo la definizione di un mio amico che fa quel mestiere, "ogni mattina si alza e spala merda al posto degli altri".
E di merda Sparagna ne ha spalata: denunce, processi, debiti, cambiali, pignoramenti, chiusure, riaperture, soldi trovati in maniere più o meno rocambolesche.
Di tutto ciò parla questo libro; ma parla anche della ricchezza culturale della rivista ("una enciclopedia illuminista del mondo contemporaneo"), che riuniva giornalismo d'assalto e satira, fumetto e letteratura, inchieste coraggiose e provocazioni dadaiste; parla degli amici vivi, di quelli morti (bellissimi e commoventi i ricordi di Pazienza e di Tamburini) e di quelli partiti per altri lidi; e soprattutto raccoglie un apparato iconografico di straordinaria ricchezza, una vera e propria antologia visuale di quel che "Frigidaire" è stato sia nel suo periodo d'oro, i primi anni '80, sia nella sua vita successiva, che si prolunga fino ad oggi.
Un diario minuzioso, appassionato, che termina con la nascita di "Frigolandia", la repubblica utopica fondata sulle colline umbre con lo scopo di preservare l'eredità di "Frigidaire".
Comunque si voglia considerare Sparagna (un idealista, un folle, un fricchettone fuori tempo massimo), non si può che ringraziarlo per aver salvato queste memorie.
Da leggere (e da guardare) assolutamente. Per ricordare che cosa significano parole come "creatività", "impegno", "coraggio" e "libertà intellettuale".

domenica 1 febbraio 2009

la casa di louis


Louis Armstrong House
34-56 107th Street, Corona, Queens, New York City.

Tutto ciò che mi veniva da pensare, mentre la guida ci additava l’orrendo décor dei cessi e delle stanze da letto e magnificava con un largo accento del Bronx e con gridolini estatici la carta da parati neo-liberty che invadeva ogni angolo visibile, era quanto dovesse essere incazzato il povero Louis.
Me lo immaginavo seduto sulla poltroncina imbottita del soggiorno, con le pattine ai piedi. La moglie gli portava il té e alitava sul vetro della cristalliera per togliere l'impronta di un pollice. Louis non la guardava, fissava la moquette del pavimento, come fosse stato sorpreso con la bocca sporca di marmellata.
Chissà, mi dicevo, se ogni tanto ripensava al bambino che correva scalzo sulla polvere di Battlefield, ai brutti ceffi che suonavano musiche meravigliose ai funerali, ai fagioli rossi e alla buona erba di una volta.
Una vetrina antisfondamento teneva in contenzione la sua tromba, i suoi denti si allargavano in una foto che lo ritraeva sui gradini di casa, mentre un moccioso tutto occhi lo fissava stringendo una tromba quasi più grande di se stesso.
Intorno, il Queens era una desolazione crivellata di pioggia, i messicani nell'officina fumavano con la faccia di chi non c’entra niente e la ferrovia sopraelevata si allontanava affondando nel cielo infangato.
Era una giornata ottusa, uno dei peggiori giorni del mese. Un mattino senza gioia e senza musica.

sabato 31 gennaio 2009

amarcord culinario sanseverese


I torcinelli alla brace;
i cecatelli col ragù di carne mista;
le orecchiette messe a seccare sui taglieri davanti alle porte dei sottani;
la "zuppetta" di pane raffermo, brodo e scamorza fusa (a Natale);
lo spezzatino d’agnello con i cardi lessati (a Pasqua);
i pupurati (alla festa dei Morti);
le catalogne e le cicorie mangiate a casa della mia nonna buonanima;
le pizzefritte;
la panzetta ripiena di uovo e uvetta;
le nevole con il mosto cotto;
le melanzane (i mulagnène) sott’olio;
i fiori di zucca in padella;
la lingua di bue lessa;
le cassatine ripiene di ricotta e ricoperte di glassa;
il filetto di carne di cavallo;
i lintorci;
il sanguinaccio (che non fanno più perché il sangue di maiale non si può più vendere);
la pastiera napoletana;
l’olio che fanno dalle mie parti e che invecchiando diventa piccante da bruciare la lingua;
le pricoche (i pr'coche);
i lampascioni (i lambasciune);
le ciambrachelle (i ciambrachelle) con la menta;
le zampe di rana;
gli involtini che laggiù si chiamano “braciole”;
il timballo;
le pannocchie di mais lessate che si vendevano al mercato, in enormi pignatte fumanti;
le "mandorle interrate" (i mèn'le 'nt'rrète);
a sav'zòch, ottima sott'olio.

GLOSSARIO
torcinelli = involtini piccanti ripieni di interiora tritate e tenuti fermi da budella attorcigliate;
cecatelli = pasta corta fatta a mano;
ragù di carne mista = nella fattispecie, vitello maiale salsicce e quando è stagione anche agnello;
pupurati = grosse ciambelle di color marrone scuro, che una volta venivano fatte con il mosto cotto, oggi con il cacao;
catalogne = verdura simile alla cicoria;
pizzefritte = altrimenti dette calzoni o panzerotti, solo che da me si fanno in padella, non al forno;
panzetta = la parte di carne subito sopra le costole, aperta a tasca e riempita con uovo, prezzemolo e uva passa, poi ricucita (fa parte delle carni miste usate per il ragù);
nevole = dolci composti da strisce di pasta modellate a spirale, con una forma simile a cespi di lattuga, cosparsi di miele o di mosto cotto;
lintorci = pasta fatta a mano, simile agli spaghetti alla chitarra (ma più grossi, e a sezione quadrata), viene ottenuta passando sulla pasta stesa uno speciale matterello di bronzo scanalato;
sanguinaccio = crema dolce a base di sangue di maiale;
pricoche = varietà di pesche (in italiano: percoche?, o sbaglio?);
lampascioni = bulbi selvatici simili alle cipolle, dal sapore amarissimo, mangiati lessi o in insalata;
ciambrachelle = chiocciole;
mandorle interrate = dolcetti fatti con un mucchiettino di mandorle sepolte sotto una colata di cioccolato;
braciole = involtini composti da una fettina di vitello ripiena di un impasto del quale ignoro la composizione; mia madre le chiudeva con micidiali stuzzicadenti che rischiavano sempre di infilzarti il palato o le gengive;
a sav'zòch = Salicornia Fruticosa, erba palustre spontanea.

l'opera e il sonno

Dedicato a chiunque condivida uno dei miei desideri più segreti: imparare a non dormire.

Rima palpebralis

Molto sottrae il sonno alla vita.
L’opera sospinta al margine del giorno
Scivola lenta nel silenzio.
La mente sottratta a se stessa
Si ricopre di palpebre.
E il sonno si allarga nel sonno
Come un secondo corpo intollerabile.

Valerio Magrelli
(da "Ora serrata retinae", 1980)

venerdì 30 gennaio 2009

memorandum lessicale


Locuzioni da non pronunciare, mai:
- "e quant'altro" ("se avete bisogno di acqua, panini e quant'altro..."; "in quel negozio ci puoi trovare alimentari, prodotti per la casa, vestiti e quant'altro").
- "piuttosto che" ("a scuola si studia italiano, piuttosto che matematica, piuttosto che geografia").

giovedì 29 gennaio 2009

recensioni in pillole 5: "L'arte imperfetta"


Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea", Excelsior 1881, 2007

Meglio tardi che mai.
"The Imperfect Art" fu pubblicato in America nel 1988 e contribuì a fare del ventinovenne Ted Gioia, all'epoca consulente aziendale, una delle firme più richieste della critica e della musicologia jazzistica. Questa traduzione è del 2007: ci sono voluti vent'anni, ma ne valeva la pena.
Il primo pregio del libro è lo stile, che è poi quello tipico di molta saggistica anglosassone: diretto, privo di tecnicismi, spesso anche spiritoso (persino troppo spiritoso, per le nostre orecchie abituate all'italica ampollosità). Gioia riesce ad affrontare temi seri e pesanti in maniera ironica e leggera, e per quanto mi riguarda non è certo un male.
Il secondo pregio è il contenuto del libro: sette agili saggi che affrontano il jazz in maniera sempre obliqua e sorprendente. Bastano alcuni titoli, a mo' di esempio: "Louis Armstrong e la musica d'arredamento", "Il jazz e il mito primitivista", "Cosa c'entra il jazz con l'estetica?", "Noia e jazz".
Nonostante la varietà dei temi e l'abbondanza di aneddoti e di osservazioni argute, il nocciolo teorico che Gioia propone è ben solido: come situare il jazz all'interno della cultura (musicale, ma anche più ampiamente filosofica) del mondo contemporaneo?
Le domande che scaturiscono sono spesso provocatorie: perché, in un secolo che ha visto una crescente spersonalizzazione e tecnicizzazione dell'arte, il jazz insiste nel celebrare l'individualità? come mai i primi critici esaltavano tanto la "spontaneità" del jazz? è possibile, legittimo paragonare la melodia improvvisata da un jazzista in una frazione di secondo con quella su cui un compositore classico ha sudato per giorni, mesi, anni? come giudicare una musica in cui la relazione tra artista e pubblico ha un peso uguale, se non maggiore, rispetto alla compiutezza formale? è lecito per un critico dire che si è annoiato?
Le risposte sono altrettanto, se non più provocatorie, e lascio al lettore il piacere di scoprirle. (Certo, dopo vent'anni molte osservazioni non sono più così nuove, ma accontentiamoci).
In cauda venenum: la traduzione. Certe sciatterie stilistiche potrebbero anche passare, ma quando si legge del batterista Jenny Clarke, o di Lester Young che suona "Show Shine Boy", o si vede beat tradotto con "battuta" (anziché con "movimento") e changes con "cambi" (e non con "accordi" o "giro armonico"), un saltino sulla sedia è quasi inevitabile.