Visualizzazione post con etichetta le confessioni d'un italiano. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta le confessioni d'un italiano. Mostra tutti i post

venerdì 26 agosto 2011

heautontimorumenos


Bisogna aver vissuto e filosofeggiato a lungo per imparar a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente.

(I. Nievo, "Le confessioni di un italiano")

lunedì 11 luglio 2011

lezioni di stile 4 - eros

Martino prese su un lume e mi condusse al mio nuovo domicilio per quei lunghissimi giri di scale e di corritoio che mi parvero in quella sera non dover piú finire. Egli mi raccomodò il letticciuolo in un angolo di quello stanzino che era nulla piú d'un sottoscala; m'aiutò a svestirmi e mi compose le coltri intorno al collo perché non pigliassi freddo. Io lo lasciava fare, come appunto se fossi un morto; ma quando poi fu partito, e al lume della lucernetta deposta da lui in un cantone vidi le muraglie sgretolate e il soffittaccio sghembato in quel buco da gatti, la disperazione di non essere nella stanza bianca ed allegra della Pisana mi riprese con tal violenza che mi dava pugni e unghiate nella fronte e non fui contento se prima non mi vidi le mani rosse di sangue. In mezzo a quelle smanie sentii grattare pian piano all'uscio, e, cosa naturalissima in un ragazzo, la disperazione cesse pel momento il luogo alla paura.
- Chi è? - diss'io con voce malferma pei singhiozzi che mi agitavano ancora il petto.
L'uscio s'aperse allora e la Pisana, mezzo ignuda nella sua camicina, a piedi nudi, e tutta tremante di freddo, saltò d'improvviso sul mio letto.
- Tu? cosa hai?... cosa fai?... - le dissi io non rinvenendo ancora dalla sorpresa.
- Oh bella! ti vengo a trovare e ti bacio, perché ti voglio bene - mi rispose la fanciulletta. - Mi sono svegliata che la Faustina disfaceva il tuo letto, e siccome seppi che non volevano piú lasciarti dormire nella nostra camera, e che ti avevano messo con Martino, son venuta quassù a vedere come stai, e a domandarti perché sei scappato oggi e non ti sei piú fatto vedere.
- Oh cara la mia Pisana, cara la mia Pisana! - mi misi a gridare stringendomela di tutta forza sul cuore.
- Non gridar tanto che ci sentano poi in cucina - rispose ella accarezzandomi sulla fronte. - Cos'hai qui? - la aggiunse sentendosi bagnata la mano e guardandola contro il chiaro del lume. - Sangue, sangue; sei tutto insanguinato!... Hai qui sulla fronte un'ammaccatura che ne getta fuori a zampilli!... Cos'hai fatto? sei forse caduto o hai dato in qualche spino?
- No, non fu nulla... è stato contro la merletta della porta - risposi io.
- Bene, bene; comunque la sia, lascia far a me a guarirti - soggiunse la Pisana. E mi mise la bocca sulla ferita baciandomela e succiandomela, come facevano le buone sorelle d'una volta sul petto dei loro fratelli crociati; e io le veniva dicendo:
- Basta, basta, Pisana: ora sto benissimo! non mi accorgo nemmeno piú d'essermi fatto male!
- No, esce ancora un poco di sangue - rispondeva ella, e mi teneva ancora la bocca sulla fronte, serrata con tal forza che non pareva una bambina di otto anni.
Finalmente il sangue fu stagnato, e la vanerella insuperbiva di vedermi tanto beato come era di quelle sue carezze.
- Sono venuta su allo scuro tastando le muraglie - la mi disse - ma dabasso sono a cena, e non avea paura che mi scoprissero. Ora poi che ti ho guarito, mi tocca scender ancora perché non mi trovino per le scale.
- E se ti trovassero?
- Oh bella! faccio le viste di sognare!
- Sí; ma mi dispiace quasi, che tu arrischi cosí di buscarti dalla mamma qualche castigo.
- Se dispiace a te, a me non importa, anzi mi piace - ella rispose con un atto di vezzosa superbietta, squassando la testa all'indietro per liberarsi la fronte dai capelli disciolti che la avevano ingombra. - Vedi! tu mi piaci piú di tutto, e quando poi non hai indosso quella giubbaccia, come sei ora il mio Carlino, che ti veggo proprio tal qual sei, mi piaci tre volte tanto!... Oh! perché non ti mettono le belle cose che aveva oggi intorno mio cugino Augusto!...
- Oh me ne procurerò di quelle belle cose! - io sclamai. - Le voglio ad ogni costo!
- E dove le prenderai? - mi chiese di rimando.
- Dove, dove!... lavorerò per guadagnar danari, è coi danari, dice Germano, che si può aver tutto.
- Sí, sí, lavora! lavora! - mi disse la Pisana. - Io allora ti vorrò bene sempre piú! Ma perché non ridi ora?... Eri tanto allegro poco fa!
- Vedi un po' se rido? - soggiunsi io giungendo la mia bocca alla sua.
- No, cosí non ti posso vedere!... Via, lasciami! Voglio guardarti se ridi. Hai capito che ho detto di volerti guardare.
Io la accontentai e feci anche prova di riderle colle labbra, ma giù nel cuore andava pensando qual bene la m'avrebbe voluto intantoché io mi fossi guadagnati quegli arredi da signore.
- Ora sei carino, che mi dai piacere - riprese la Pisana canticchiando con quella sua vocina che mi par ancora di sentirla e mi diletta le orecchie fin dalla memoria. - Addio Carlino; io ti saluto, e vado dabasso prima che non ritorni la Faustina!
- Voglio farti lume io!
- No, no; - soggiunse ella saltando giù dal letto e impedendomi di far lo stesso con una delle sue mani - son venuta allo scuro e tornerò giù come sono venuta.
- Ed io ripeto che non voglio che ti faccia male, e che ti farò lume fin sulla scala.
- Guai a te se ti movi! - la mi disse allora cambiando modo di voce, e lasciandomi libero di movermi, come sicura che il suo cenno avrebbe bastato a farmi star quatto - mi fai andar in collera; ti dico che voglio scendere senza lume! io son coraggiosa, io non ho paura di nulla! io voglio andare come voglio io!
- E se poi ti succede di inciampare, o di perderti pei corritoi!
- Io inciampare o perdermi?... Sei matto?... Non son mica nata ieri!... Addio, addio Carlino. Ringraziami perché sono stata buona di venirti a trovare.
- Oh sí, ti ringrazio, ti ringrazio! - le dissi io, col cuore slargato dalla consolazione.
- E lascia che io ringrazi te; - la soggiunse, inginocchiandomisi vicino e baciuzzandomi la mano - perché seguiti a volermi bene anche quando son cattiva. Ah sí! tu sei proprio il fanciullo piú buono e piú bello di quanti me ne vengono dintorno, e non capisco come non mi castighi mai di quelle malegrazie che ti faccio qualche volta.
- Castigarti? perché mai, Pisana? - io le andava dicendo. - Levati su piuttosto, e lascia che ti faccia lume, che cosí al freddo puoi ammalarti!
- Eh! - sclamò la piccoletta. - Sai pure che io non mi ammalo mai! Prima di andar via voglio proprio che tu mi castighi, e che mi strappi ben bene i capelli per le cattiverie che ho commesse contro di te. - E la mi prendeva le mani mettendomele sulla sua testolina.
- Ohibò! - diceva io ritraendole - piuttosto ti bacerei!
- Voglio che tu mi strappi i capelli! - soggiunse ella riprendendomi le mani.
- Ed io invece non voglio! - risposi ancora.
- Come non vuoi? ed io ti dico che vorrai! - la si mise a strillare. - Strappami i capelli, strappami i capelli, se no grido tanto che verranno qua sopra e mi farò pestare dalla mamma.
Io per acchetarla presi con due dita una ciocca delle sue treccie e me la attorcigliai intorno alla mano, giocarellando.
- Tira dunque, via; tirami i capelli - ella soggiunse un po' stizzita, ritraendo di furia la testa in modo che la mia mano dovette seguirla per non farle troppo male. - Ti dico che voglio esser castigata! - continuò pestando i suoi piedini e le ginocchia contro il pavimento che era di pietre tutte sconnesse.
- Non far cosí, Pisana, che ti guasterai tutta.
- Or dunque strappami i capelli!
Io tirai pian piano quella ciocca che aveva fra le dita.
- Piú forte, piú forte! - disse la pazzerella.
- Cosí dunque - diss'io facendo un po' piú di forza.
- No cosí! piú forte ancora - riprese ella con atto di rabbia. E mentre io non sapeva che fare, la dimenò il capo con tanto impeto e cosí improvvisamente che quella ciocca de' suoi capelli mi rimase divelta fra le dita. - Vedi? - aggiunse allora tutta contenta. - Cosí voglio esser castigata quando lo voglio!... e a rivederci dimani, Carlino; e non moverti di là se no non vengo piú a spasso con te.
Io mi stetti attonito ed immobile con quella ciocca fra le dita mentr'ella guizzò dalla porta e richiuse l'uscio: e poi feci per correrle dietro col lume ma la era già scomparsa dal corritoio. Scommetto che se la sua mamma nel castigarla le avesse strappato uno di quei capelli, ella ne avrebbe strepitato tanto da metter sottosopra la casa ed anche ora mi maraviglia che la sopportasse quel dolore senza batter palpebra; tanto potevano in lei la volontà e la bizzarria infin da bambina. Io poi non so se quei momenti mi fossero piú di piacere o di rammarico. Quell'eroismo della Pisana di venirmi a trovare a traverso gli andirivieni di quella buia casaccia, e ad onta delle punizioni che ne poteano capitarle, m'avea fatto salire al settimo cielo; poscia la sua caparbietà s'era intromessa a tosarmi di molto le ali perché sentiva (dico sentiva, perché a nove o dieci anni certe cose non si capiscono ancora) sentiva, ripeto, che l'immaginativa, e la vanagloria di mostrare un piccolo portento di prodezza, c'entravano piú assai dell'affetto in un tale eroismo. M'era dunque raumiliato d'alquanto dal primo bollore d'entusiasmo, e quei capelli che m'erano rimasti testimoniavano piuttosto della mia servitù che del suo buon cuore verso di me. Tuttavia fin da fanciullo i segni materiali delle mie gioie de' miei dolori e delle mie varie vicende mi furono sempre carissimi; e quei capelli non li avrei dati allora per tutti i bei bottoni d'oro e di mosaico e per le altre dovizie che sfoggiava sulla persona il signor Conte nei giorni solenni.

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

sabato 2 luglio 2011

o tempora! o mores!


"Vi sono ora leggiadre donzelle e giovinotti di garbo le cui mire son tutte volte ai godimenti materiali: le comodità, le feste, le pompe sono loro soli desiderii; sola cura il danaro che provvede d'un lauto e perenne pascolo quei desiderii; perfino il loro spirito non cerca qualche nutrimento che per farsene bello agli occhi della gente, e non provar l'incommodo di dover arrossire. Del resto la mente di costoro non conosce diletti che sieno veramente suoi. Domandate ad essi se vorrebbero esser stati o Scipioni, o Dante, o Galileo; vi risponderanno che i Scipioni e Dante e Galileo sono morti. Per loro la vita è tutto. Ma quando dovranno abbandonarla? Non vogliono pensarci! Non vogliono; dicono essi; io soggiungo che non possono, che non osano. E se l'osassero avrebbero a scegliere fra la pistola, suicidio del corpo, e il fastidio della vita, suicidio dell'anima."

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

venerdì 1 luglio 2011

credete e lasciatemi in pace

La fede a' suoi tempi era almeno una idealità una forza un conforto; e chi non aveva il coraggio di soffrire cercando e aspettando, avea la fortuna di sopportare credendo. Ora la fede se ne va, e la scienza viva e completa non è venuta ancora. Perché dunque glorificar tanto questi tempi che i piú ottimisti chiamano di transizione? Onorate il passato ed affrettate il futuro; ma vivete nel presente coll'umiltà e coll'attività di chi sente la propria impotenza e insieme il bisogno di trovare una virtù. Educato senza le credenze del passato e senza la fede nel futuro, io cercai indarno nel mondo un luogo di riposo pei miei pensieri. Dopo molti anni strappai al mio cuore un brano sanguinoso sul quale era scritto giustizia, e conobbi che la vita umana è un ministero di giustizia, e l'uomo un sacerdote di essa, e la storia un'espiatrice che ne registra i sagrifici a vantaggio dell'umanità che sempre cangia e sempre vive. Antico d'anni piego il mio capo sul guanciale della tomba: e addito questa parola di fede a norma di coloro che non credono piú e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione. La fede non si comanda; neppur da noi a noi. A chi compiange la mia cecità, e lagrima nella mia vita uno sforzo virtuoso ma inutile che non avrà ricompensa nei secoli eterni, io rispondo: Io sono padrone in faccia agli altri uomini del mio essere temporale ed eterno. Nei conti fra me e Dio a voi non tocca intromettervi. Invidio la vostra fede, ma non posso impormela. Credete adunque, siate felici, e lasciatemi in pace.

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

martedì 28 giugno 2011

lezioni di stile 3 - il canonico (seconda parte)

Costui fu chiamato una bella mattina con imponente solennità dinanzi a suo padre; il quale per quanto ostentasse l’autorevole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare vacillante e contrito d’un generale che capitola.
– Figliuol mio – cominciò egli a dire – la professione delle armi è una nobile professione.
– Lo credo – rispose il giovinetto con una cera da santo un po’ intorbidata dall’occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre.
– Tu porti un nome superbo – riprese sospirando il vecchio Conte. – Orlando, come devi aver appreso dal poema dell’Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare...
– Io leggo l’Uffizio della Madonna – disse umilmente il fanciullo.
– Va benissimo; – soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte – ma anche l’Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò daiMori il bel regno di Francia. E di piú se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll’Uffizio dellaMadonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo.
– Sia ringraziato Iddio! – sclamò il giovinetto. – Ora non resta nulla a che fare.
– Come non resta nulla? – gli diede sulla voce il vecchio. – Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità.
– Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna –soggiunse Orlando.
– Che pregare! Fare, fare bisogna! – gridò il vecchio Conte.
– Scusate – s’intromise a dirgli la Contessa. – Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata.
– Eh via! non è piú bimbo! – rispose il Conte. – Compie oggi appunto i dodici anni!
– Compiesse anche il centesimo – soggiunse la signora – certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina.
– Non la conquisteremo piú finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario! – sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile.
– Sí! ci voleva anche questa bestemmia! – riprese pazientemente la Contessa. – Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!
– Bei doni, bei doni! – mormorava il Conte. – Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto e mezzo coniglio!
– Infine egli non ha detto questa gran bestialità; –soggiunse la signora – ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.
– Corpo della Serenissima! – gridò il Conte. – Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava leTermopili con trecento boccali di vino!
– S’anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico – riprese la Contessa.
– Come? – urlò il vecchio signore – arrivate persino anegare l’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane?
– Via! stiamo nel seminato! – disse chetamente ladonna – io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole.
– Donne, donne!... nate per educar i polli – borbottava il Conte.
– Marito mio! sono una Badoera! – disse drizzandosi la Contessa. – Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono piú numerosi che nella vostra icapponi.
Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all’occhiata severa ch’ella gli volse.
– Vedete? – continuò parlando al marito – finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po’ da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l’animo di questo fanciullo.
Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sí brutto ch’egli se ne sgomentí e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno.– Dunque – cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile.
– Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d’oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni alti quattro braccia l’uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre deiTurchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca?
– Voglio cantar messa io! – piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos’era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe piú ritegno alla stizza, e diventò rosso piú ancor di vergogna che di collera.
– Va’ dunque in seminario, bastardo! – gridò egli fuggendo fuori della stanza.
Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsii capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli:– Sí, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de’ tuoi fratelli come Caino!...
– Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo!– strepitava Orlando.
– Sí... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre piú degni di lui – gli andava dicendo la mamma.
Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando.

lunedì 27 giugno 2011

lezioni di stile 2: il canonico (prima parte)

Il Conte aveva un fratello che non gli somigliava per nulla ed era canonico onorario della cattedrale di Portogruaro, il canonico piú rotondo, liscio, e mellifluo che fosse nella diocesi; un vero uomo di pace che divideva saggiamente il suo tempo fra il breviario e la tavola, senza lasciar travedere la sua maggior predilezione per questa o per quello. Monsignor Orlando non era stato generato dal suo signor padre coll’intenzione di dedicarloalla Madre Chiesa; testimonio il suo nome di battesimo.L’albero genealogico dei Conti di Fratta vantava una gloria militare ad ogni generazione; cosí lo si aveva destinato a perpetuare la tradizione di famiglia. L’uomo propone e Dio dispone; questa volta almeno il gran proverbio non ebbe torto. Il futuro generale cominciò la vita col dimostrare un affetto straordinario alla balia, sicché non fu possibile slattarlo prima dei due anni. A quell’età era ancora incerto se l’unica parola ch’egli balbettava fosse pappa o papà. Quando si riescí a farlo stare sulle gambe, cominciarono a mettergli in mano stocchi di legno ed elmi di cartone; ma non appena gli veniva fatto, egli scappava in cappella a menar la scopa col sagrestano. Quanto al fargli prendere domestichezza colle vere armi, egli aveva un ribrezzo istintivo pei coltelli da tavola e voleva ad ogni costo tagliar la carne col cucchiaio. Suo padre cercava vincere questa maledetta ripugnanza col farlo prendere sulle ginocchia da alcuno de’ suoi buli; ma il piccolo Orlando se ne sbigottiva tanto, che conveniva passarlo alle ginocchia della cuoca perché non crepasse di paura. La cuoca dopo la balia ebbe il suo secondo amore; onde non se ne chiariva per nulla la sua vocazione. Il Cancelliere d’allora sosteneva che i capitani mangiavano tanto, che il padroncino poteva ben diventare col tempo un famoso capitano. Ma il vecchio Conte non si acquietava a queste speranze; e sospirava, movendo gli occhi dal viso paffutello e smarrito del suo secondogenito ai mostaccioni irti ed arroganti dei vecchi ritratti di famiglia. Egli avea dedicato gli ultimi sforzi della sua facoltà generativa all’ambiziosa lusinga d’inscrivere nei fasti futuri della famiglia un grammaestro di Malta o un ammiraglio della Serenissima; non gli passava pel gozzo di averli sprecati per avere alla sua tavola la bocca spaventosa d’un capitano delle Cernide. Pertanto raddoppiava di zelo per risvegliare e attizzare gli spiriti bellicosi di Orlando; ma l’effetto non secondava l’idea. Orlando faceva altarini per ogni canto del castello, cantava messa, alta bassa e solenne, colle bimbe del sagrestano; e quando vedeva uno schioppo correva a rimpiattarsi sotto le credenze di cucina. Allora vollero tentare modi piú persuasivi; si cominciò a proibirgli di bazzicare in sacristia, e di cantar vespri nel naso, come udiva fare ai coristi della parrocchia. Ma sua madre si scandolezzò di tali violenze; e cominciò dal canto suo a prender copertamente le difese del figlio. Orlando ci trovò il suo gusto a far la figura del piccolo martire: e siccome le chicche della madre lo ricompensavano dei paterni rabbuffi, la professione del prete gli parve piucchemai preferibile a quella del soldato. La cuoca e le serve di casa gli annasavano addosso un certo odore di santità; allora egli si diede ad ingrassare di contentezza e a torcer anche il collo per mantenere la divozione delle donne. E finalmente il signor padre colla sua ambizione marziale ebbe contraria l’opinione di tutta lafamiglia. Perfino i buli che tenevano dalla parte della cuoca, quando il feudatario non li udiva, gridavano al sacrilegio di ostinarsi a stogliere un San Luigi dalla buona strada. Ma il feudatario era cocciuto, e soltanto dopo dodici anni d’inutile assedio, si piegò a levare il campo e a mettere nella cantera dei sogni svaniti i futuri allori d’Orlando.
(... continua)

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

domenica 26 giugno 2011

lezioni di stile 1: il cancelliere

Per solito il Cancelliere era l’ombra incarnata del signor Conte. S’alzava con lui, sedeva con lui, e le loro gambe s’alternavano con sí giusta misura che pareva rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiare di queste abitudini le frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor Conte a volgersi ogni tre passi per vederese era seguitato secondo i suoi desiderii. Sicché il Cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la seconda metà della giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nell’augurargli salute ad ogni starnuto, nell’approvare le sue osservazioni, e nel dire quello che giudicava dovesse riuscirgli gradito delle faccende giurisdizionali. Per esempio se un contadino, accusato di appropriarsi le primizie del verziere padronale, rispondeva alle paterne del Cancelliere facendogli le fiche, ovverosia cacciandogli in mano un mezzo ducatone per risparmiarsi la corda, il signor Cancelliere riferiva al giurisdicente che quel tale spaventato dalla severa giustizia di Sua Eccellenza avea domandato mercé, e che era pentito del malfatto e disposto a rimediare con qualunque ammenda s’avesse stimato opportuna. Il signor Conte aspirava allora tanta aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Tito deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il Cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia perché un corpicciuolo piú meschino e magagnato del suo, non lo si avrebbe trovato cosí facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il diritto di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di piú nasi abortiti insieme; e la bocca si spalancava sotto cosí minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo che detratti gli stivali la parrucca gli abiti la spada e il telaio delle ossa, il peso del Cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco inamidato. Cosí com’era egli aveva la felice illusione di credersi tutt’altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanterie.
Come fosse contenta madonna Giustizia di trovarsi nelle sue mani io non ve lo saprei dire in coscienza. Mi ricorda peraltro di aver veduto piú musi arrovesciati che allegri scendere dalla scaletta scoperta della cancelleria. Cosí anche si buccinava sotto l’atrio nei giorni d’udienza che chi aveva buoni pugni e voce altamente intonata e zecchini in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribunale. Quello che posso dire si è che due volte sole m’accadde veder dare le strappate di corda nel cortile del castello; e tutte e due le volte questa cerimonia toccò a due tristanzuoli che non ne aveano certamente bisogno. Buon per loro che il cavallante incaricato dell’alta e bassa giustizia esecutiva, era un uomo di criterio, e sapeva all’uopo sollevar la corda con tanto garbo che le slogature guarivano alla peggio sul settimo giorno. Perciò Marchetto cognominato il Conciaossi era tanto amato dalla gente minuta quanto era odiato il Cancelliere. Quanto al signor Conte nascosto, come il fato degli antichi, nelle nuvole superiori all’Olimpo, egli sfuggiva del pari all’odio che all’amore dei vassalli. Gli cavavano il cappello come all’immagine d’un santo forestiero con cui avessero poca confidenza; e si tiravano col carro fin giù nel fosso quando lo staffiere dall’alto del suo bombay gridava loro di far largo mezzo miglio alla lontana.

(Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano, cap. 1)