Che cazzo posso fare con il mio ginocchio,
con la mia gamba così lunga e così debole,
con le mie braccia, con la mia lingua,
con i miei occhi deboli?
Che c'entro io con questo casino
di idioti di buona volontà?
Che c'entro io con intelligenti putrefatti
e con dolci bambine che non vogliono un uomo ma solo poesia?
Cosa posso io tra poeti uniformati
dall'accademia o dal comunismo?
Cosa, tra venditori o politici
o pastori di anime?
Che cazzo ci posso fare, Tarumba,
se non sono un santo, né un eroe, né un bandito,
né un adoratore dell'arte,
né un farmacista,
né un ribelle?
Che ci posso fare se posso fare tutto
e non voglio fare altro che guardare e guardare?
(da “Tarumba, 1956)
* * *
Ti amo alle dieci del mattino, e alle undici, e a mezzogiorno. Ti amo con tutta l'anima e con tutto il mio corpo, a volte, nei pomeriggi di pioggia. Però alle due del pomeriggio, o alle tre, quando mi metto a pensare a noi due, e tu pensi al pranzo o alle faccende domestiche o ai diversivi che non hani, comincio a odiarti sordamente, con la metà dell'odio che ho per me.
Poi ti amo di nuovo, quando dormiamo e sento che sei fatta per me, che in qualche modo me lo dicono il tuo ginocchio e il tuo centre, le mie mani me ne convincono, e non esiste altro luogo dove io venga, dove io vada, migliore del tuo corpo. Tu mi accogli con tutta te stessa, ed entrambi scompariamo un istante, ci mettiamo nella bocca di Dio, fino a che non ti dico che ho fame o sonno.
Tutti i giorni ti amo e ti odio irrimediabilmente. E ci sono anche giorni, ci sono ore, in cui non ti conosco, in cui mi sei estranea come la donna di un altro. Mi preoccupo degli uomini, mi preoccupo di me, mi distraggono le mie pene. È probabile che non penserò a te per molto tempo. Chi potrebbe amarti meno di me, amore mio?
(da “Diario settimanale e poesie in prosa”, 1961)
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Si dice, si vocifera, dicono nei salotti, alle feste, uno o pochi informati, che Jaime Sabines è un grande poeta. O almeno un buon poeta. O un poeta decente, stimato. O semplicemente un vero poeta.
La notiza giunge a Jaime e lui si rallegra: che bellezza! Sono un poeta! Sono un poeta importante! Sono un grande poeta!
Convinto esce fuori, o va a casa, convinto. Ma per strada nessuno, e a casa ancora meno: nesuno si rende conto che è un poeta. Perché i poeti non hanno una stella sulla fronte o una luce visibile o un raggio che gli esce dalle orecchie?
Mio Dio!, dice Jaime. Devo essere un papà un marito, o lavorare in una fabbrica come uno qualsiasi, o camminare, come uno qualsiasi, come un pedone.
Proprio così!, dice Jaime. Non sono un poeta: sono un pedone.
E questa volta se ne sta sdraiato sul letto con un'allegria dolce e tranquilla.
(da “Altre poesie libere”, 1973-74)
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Adoro Dio. È un vecchio magnifico che non si prende sul serio. Gli piace giocare e gioca, e a volte perde definitivamente il controllo e ci rompe una gamba o ci schiaccia definitivamente. Però questo succede solo perché non vede bene ed è abbastanza goffo con le mani.
Ci ha inviato dei tipi eccezionali come Buddha o Cristo o Maometto, o mia zia Chofi, affinché ci dicano di comportarci bene. Ma lui non se ne preoccupa molto: ci conosce. Sa che il pesce grande mangia il pesce piccolo, che la lucertola grande mangia quella piccola, che l'uomo mangia l'uomo. E per questo ha inventato la morte: perché la vita – non tu né io – la vita sia per sempre.
Adesso gli scienziati se ne escono con la loro teoria del Big Bang... Però che importanza ha se l'universo si estende infinitamente o si contrae? Questo è un fatto che interessa solamente alle agenzie di viaggio.
Adoro Dio. Ha messo in ordine le galassie e distribuisce bene il traffico sul cammino delle formiche. Ed è così giocherellone e dispettoso che l'altro giorno ho scoperto che ha inventato – contro l'attacco degli antibiotici – dei batteri mutanti.
Vecchio saggio o bambino esploratore, quando smette di giocare con i suoi soldatini di piombo edi carne e ossa, crea campi di fiori o dipinge il cielo in modo incredibile.
Muove una mano e crea il mare, ne muove un'altra e crea le montagne. E quando passa sopra di noi, restano le nubi, pezzi del suo alito.
Dicono che a volte s'infuria e crea terremoti, e manda tempeste, flussi di fuoco, venti scatenati, acque sporche, castihi e disastri. Ma è tutto falso. È la terra che cambia – e si agita e cresce – quando Dio si allontana.
Dio è sempre di buon umore. Per questo è il preferito dei miei genitori, il prescelto dei miei figli, il più caro dei miei fratelli, la donna più amata, il cagnolino e la pulce, la pietra più antica, il petalo più tenero, l'aroma più dolce, la notte insondabile, lo sfarfallio della luce, la sorgente che sono.
Mi piace Dio, lo adoro. Che Dio benedica Dio.
(da “Altre poesie libere”, 1973-74)
Jaime Sabines (Tuxtla Gutiérrez, Chiapas, 1926 – Città del Messico, 1999)
Le traduzioni sono di Angela Saliani, da “Poesia”, XXIX, 315 (maggio 2016)