Walter Tevis, The Man Who Fell to
Earth, Penguin, 2009 (185 pagine,
8,99 sterline) – ed. originale 1963
Lo ammetto, certe volte ho tempi un po'
lunghetti. Per esempio, questo libro volevo leggerlo da quando, in prima
media, trovai un paio di brani sulla mia antologia. Ci ho messo un
quarto di secolo abbondante, ma alla fine ce l'ho fatta. Comunque,
valeva la pena; anzi, era persino meglio di quanto mi aspettassi.
La trama è abbastanza nota:
nel 1985, un alieno arriva sulla Terra (per la precisione, nel Kentucky) e,
sfruttando le sue superiori conoscenze tecnologiche, fa un sacco di
soldi fondando società e vendendo brevetti. In realtà il suo scopo
è quello di costruire una nave spaziale per portare sul nostro
pianeta gli ultimi sopravvissuti del suo popolo, auto-decimatosi con
una serie di terribili conflitti atomici.
Questa l'idea, espressa in due righe.
Poi, come sempre, la differenza sta nel come, non nel cosa.
Ho detto qualche tempo fa che sono un
lettore sporadico di fantascienza, un genere che spesso mi irrita per
la sua superficialità. “Spesso”, non sempre, perché anche lì
ci sono i capolavori, e questo è uno dei casi.
Tevis (che, per inciso, è anche quello
che ha scritto i romanzi da cui furono tratti Lo spaccone
e Il colore dei soldi,
e scusate se è poco) sorvola quasi del tutto gli elementi strettamente fantascientifici – tecnologia futuribile, descrizione
di civiltà aliene – e si concentra su due aspetti. Uno è
un'America distopica, ma neanche tanto, un paese ricco e opulento ma
sull'orlo di una guerra totale. Visione particolarmente pregnante nel
1963, e anche adesso non è che sia granché invecchiata. Il secondo
aspetto è la solitudine di Newton (così si fa chiamare l'alieno),
perso in un pianeta sconosciuto, costretto ad agire per fini che lui
stesso, a poco a poco, scopre di non condividere più. Il personaggio
sprofonda sempre più nell'alienazione, finendo per legare solo con
due persone altrettanto sole ed alienate: Bryce, uno scienziato che
sospetta della sua vera identità, e Betty Jo, un'alcolizzata che si
innamora di lui.
Il
finale – che ovviamente non rivelo – è di raggelato, disilluso
pessimismo.
Come
tutti i grandi romanzi (e questo lo è), L'uomo che cadde
sulla Terra è leggibile a più
livelli. Un critico americano li ha benissimo riassunti così:
Alla superficie, L'uomo è il racconto di un alieno che viene sulla terra per salvare la propria civiltà e, attraverso avversità, distrazioni e perdite di fiducia (“Lo voglio... ma non abbastanza”), fallisce. Poco al di sotto della superficie, lo si può leggere come una parabola sul conformismo anni Cinquanta e sulla Guerra Fredda. Fra molte altre cose è, nelle parole di Tevis stesso, “un'autobiografia molto mascherata”, il racconto del suo trasferimento infantile da San Francisco, “la città della luce”, al Kentucky rurale, e della malattia che da bambino lo confinò a lungo a letto, lasciandolo, dopo la guarigione, debole, fragile e isolato. Parlava anche – come si rese conto solo dopo averlo scritto – del suo percorso verso l'alcolismo. Al di sotto di tutto ciò, è ovviamente una parabola cristiana, e un ritratto dell'artista. Infine, è uno dei libri più commoventi che io conosca, un canto funebre su una grande ambizione e un terribile fallimento, e un'evocazione dell'assoluta, insuperabile solitudine umana.
Ora è
il caso che mi guardi il film che ne fu tratto, con un David Bowie
che era l'unica scelta possibile come protagonista.
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