sabato 17 ottobre 2015

j'abite mon corps

Ci appartiene, il nostro corpo? Non saprei.
Con esso ci identifichiamo, almeno in parte. Lo abitiamo. E, in una certa misura, lo gestiamo. Ma molti altri possono vantare diritti pari o persino superiori.
Il barbiere, che notando una basetta asimmetrica o una sfumatura un po' troppo decisa ci rimbecca con un “ci ha messo mano lei, eh?”
Il medico, che esercita la sua giurisdizione sulle regioni che noi stessi gli abbiamo affidato.
Il datore di lavoro (stavo per dire: “il padrone”, quanto sono antico...), che può confinarlo per otto ore in una stanza impedendogli di seguire le proprie naturali pulsioni.
Un(')amante, com'è ovvio, il cui potentato spazia sulla sua intera estensione, fino alle più minute pliche.
Lo Stato, la società, la cultura, la morale che – ce ne rendiamo conto o no – educandolo lo disciplinano, lo irreggimentano, lo irrigidiscono, ne comprimono e amputano le potenzialità.

E a noi? Che cosa resta? Poco, in effetti.
Il gabinetto, ultima landa vergine della privacy.
Il suicidio, che per gli antichi era la suprema affermazione dell'uomo sul suo destino.
I rari momenti di totale solitudine.
Il sonno, quando ci consegniamo interi a noi stessi.
È per questo che il sonno mi affascina: me insonne per carattere e per genetica. Chi mi agisce nel sonno? Chi muove il mio corpo? Chi mi detta i sogni?
Io? Risposta troppo semplice. “Io è un altro”, disse Rimbaud. “Io sono tanti altri”, chioserei.
Fa da collante questo minuscolo frammento di autocoscienza che guida le mie dita mentre scrivo.
E che si crede padrone, mentre è una mosca cocchiera, marionetta inconsapevole dei propri fili.

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