Ci appartiene, il nostro corpo? Non
saprei.
Con esso ci identifichiamo, almeno in
parte. Lo abitiamo. E, in una certa misura, lo gestiamo. Ma molti
altri possono vantare diritti pari o persino superiori.
Il barbiere, che notando una basetta
asimmetrica o una sfumatura un po' troppo decisa ci rimbecca con un
“ci ha messo mano lei, eh?”
Il medico, che esercita la sua giurisdizione sulle regioni che noi stessi gli abbiamo affidato.
Il datore di lavoro (stavo per dire: “il padrone”, quanto sono antico...), che può confinarlo per otto ore in una stanza impedendogli di seguire le proprie naturali pulsioni.
Il medico, che esercita la sua giurisdizione sulle regioni che noi stessi gli abbiamo affidato.
Il datore di lavoro (stavo per dire: “il padrone”, quanto sono antico...), che può confinarlo per otto ore in una stanza impedendogli di seguire le proprie naturali pulsioni.
Un(')amante, com'è ovvio, il cui
potentato spazia sulla sua intera estensione, fino alle più minute
pliche.
Lo Stato, la società, la cultura, la
morale che – ce ne rendiamo conto o no – educandolo lo
disciplinano, lo irreggimentano, lo irrigidiscono, ne comprimono e
amputano le potenzialità.
E a noi? Che cosa resta? Poco, in
effetti.
Il gabinetto, ultima landa vergine
della privacy.
Il suicidio, che per gli antichi era la
suprema affermazione dell'uomo sul suo destino.
I rari momenti di totale solitudine.
Il sonno, quando ci consegniamo interi
a noi stessi.
È per questo che il sonno mi
affascina: me insonne per carattere e per genetica. Chi mi agisce nel
sonno? Chi muove il mio corpo? Chi mi detta i sogni?
Io? Risposta troppo semplice. “Io è un altro”, disse Rimbaud. “Io sono tanti altri”, chioserei.
Io? Risposta troppo semplice. “Io è un altro”, disse Rimbaud. “Io sono tanti altri”, chioserei.
Fa da collante questo minuscolo
frammento di autocoscienza che guida le mie dita mentre scrivo.
E che si crede padrone, mentre è una
mosca cocchiera, marionetta inconsapevole dei propri fili.
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