lunedì 11 febbraio 2013

rapporto con l'eterno



Quest'anno, ricorre un doppio anniversario sereniano: Vittorio Sereni nacque a Luino cent'anni fa, il 27 luglio 1913, e morì a Milano trent'anni fa, il 10 febbraio 1983.
Sereni è uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento, ormai consacrato in tutti i testi e le antologie. E' anche uno di quelli che hanno esercitato un'influenza più profonda, anche se forse non sempre evidente di primo acchito; io lo vedo come una sorta di cardine fra il primo e il secondo Novecento (so che questa affermazione necessiterebbe di prove e riferimenti, che però ora non ho tempo e voglia di fare: chiedo venia ai lettori).
Allo stesso tempo, ho l'impressione che di questi anniversari si parli poco; anzi, che di Sereni, in generale, si parli poco. Il perché, onestamente, non lo so.
Per chi volesse approfondire, qui c'è un bel pezzo di Guido Mazzoni. Di seguito, pubblico alcune poesie (le ho prese da qui, dove ce ne sono anche altre).

* * *

Dimitrios
(da "Diario d'Algeria")

Alla tenda s'accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d'uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d'infanzia.

È già lontano,
arguto mulinello
che s'annulla nell'afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.

* * *

Ancora sulla strada di Zenna
(da "Gli strumenti umani")

Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.

* * *

Intervista a un suicida
(da "Gli strumenti umani")

L'anima, quello che diciamo l'anima e non è
che una fitta di rimorso,
lenta deplorazione sull'ombra dell'addio
mi rimbrottò dall'argine.

Ero, come sempre, in ritardo
e il funerale a mezza strada, la sua furia
nera ben dentro il cuore del paese.
Il posto: quello, non cambiato - con memoria
di grilli e rane, di acquitrino e selva
di campane sfatte -­
ora in polvere, in secco fango, ricettacolo
di spettri di treni in manovra
il pubblico macello discosto dal paese
di quel tanto...

In che rapporto con l'eterno?
Mi volsi per chiederlo alla detta anima, cosiddetta.
Immobile, uniforme
rispose per lei (per me) una siepe di fuoco
crepitante lieve, come di vetro liquido

indolore con dolore.
Gettai nel riverbero il mio perché l'hai fatto?
Ma non svettarono voci lingueggianti in fiamma,
non la storia d'un uomo:
simulacri,
e nemmeno, figure della vita.

La porta
carraia, e là di colpo nasce la cosa atroce,
la carretta degli arsi da lanciafiamme...
rinvenni, pare, anni dopo nel grigiore di qui
tra cassette di gerani, polvere o fango
dove tutto sbiadiva, anche
- potrei giurarlo, sorrideva nel fuoco -
­anche... e parlando ornato:
«mia donna venne a me di Val di Pado»
sicché (non quaglia con me - ripetendomi -
­non quagliano acque lacustri e commoventi pioppi

non papaveri e fiori di brughiera)
ebbi un cane, anche troppo mi ci ero affezionato,
tanto da distinguere tra i colpi del qui vicino mattatoio
il colpo che me lo aveva finito.
In quanto all'ammanco di cui facevano discorsi
sul sasso o altrove puoi scriverlo, come vuoi:

NON NELLE CASSE DEL COMUNE
L'AMMANCO
ERA NEL SUO CUORE

Decresceva alla vista, spariva per l'eterno.
Era l'eterno stesso
puerile, dei terrori
rosso su rosso, famelico sbadiglio
della noia
col suono della pioggia sui sagrati...
Ma venti trent'anni
fa lo stesso, il tempo di turbarsi
tornare in pace gli steli
se corre un motore la campagna,
si passano la voce dell'evento

ma non se ne curano, la sanno lunga
le acque falsamente ora limpide tra questi
oggi diritti regolari argini,
lo spazio
si copre di case popolari, di un altro
segregato squallore dentro le forme del vuoto.
...Pensare
cosa può essere - voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore -­
cosa può essere un uomo in un paese,

sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai.