Voglio raccontarti, già che ci sono, quello che mi è accaduto, ancora
uno di questi giorni, con un giovane letterato, persona a te nota, ed a
me carissima.
Ero seduto con lui al Caffè; egli leggeva alcune delle Mediterranee, che avevo appena, con amorosa cura, ordinate e trascritte. Ulisse era una di queste poesie. La poesia, nel suo complesso, gli piacque. Ma ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi ed arricciare il naso. Il verso dice:
Nella mia giovaneza ho navigato
Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il verso non era «bello»; lo trovava anche troppo «scoperto». Ora quel verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in sé stesso preso, né bello né brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali prende rilievo. Non è né «brutto» né «scoperto»; è semplicemente «immediato», non cioè passato attraverso nessun alambicco di nessuna, più o meno sapiente, più o meno di moda, deformazione letteraria. Dice, con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo più semplice e diretto possibile. Diventa bello (molto bello anche, e felice) quando, nella memoria del lettore, fa corpo col resto della poesia.
Guardavo la faccia del mio interlocutore. Bella era; e, nel senso nobile della parola, mediterranea. Consunta, logorata e segnata da qualche interna difficoltà a vivere; negli occhi — dietro gli occhiali, chiarissimi — un estremo d’intelligenza sembrava unirsi ad un estremo di malinconia. La sua faccia — che mi ricordava uno di quei paesaggi toscani troppo e da troppi secoli elaborati dalla mano dell’uomo, diventati avari — concordava esattamente col suo giudizio. Quell’uomo doveva necessariamente aver paura di un’immediatezza come di una bomba; ammirare — come egli stesso volentieri confessa — assai più Petrarca che Dante. Era, in una parola, un petrarchista. Soffriva di un male, europeo per estensione, ma italiano alle origini; e di questo male almeno, io, nato agli estremi confini della patria, o non ho mai sofferto, o solo, e non in profondità, nella mia prima giovanezza. Attraverso l’innocente verso citato e la disapprovazione che esso suscitava in Aldo Borlenghi, mi sono persuaso una ultima volta che gli italiani (che sono nella loro vita istintiva e — vedi Verdi — nella musica, uno dei popoli più immediati della terra) non sopportano, in poesia, la vita, senza averla preventivamente uccisa e mummificata. Perché poi questo processo (che essi chiamano di «astrazione lirica», ed io di «congelamento» o di «involuzione») sia avvenuto proprio per la poesia, oggi come oggi, o non lo so ancora, o non voglio ancora dirlo. Ma che sia avvenuto è certo; come pure è certo che va cercata in esso una delle ragioni sia, in generale, del loro — sotto la varietà delle apparenze univoco — petrarchismo, sia, in particolare, della, fino a ieri almeno, contrastata fortuna della mia poesia. Altre, per quanto mi riguarda, ve ne furono; ma di queste mi propongo di parlare nel difficile libro che sto per te scrivendo, e che s’intitolerà Storia e cronistoria del “Canzoniere”.
Ti saluto, caro Alberto. E faccio voti che non ti preoccupi troppo della «crisi». Anche questa passerà, la gente ritornerà a comperare libri, e tu venderai perfino Scorciatoie e Raccontini del tuo
aff. Umberto
Milano, maggio 1946.
Ero seduto con lui al Caffè; egli leggeva alcune delle Mediterranee, che avevo appena, con amorosa cura, ordinate e trascritte. Ulisse era una di queste poesie. La poesia, nel suo complesso, gli piacque. Ma ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi ed arricciare il naso. Il verso dice:
Nella mia giovaneza ho navigato
Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il verso non era «bello»; lo trovava anche troppo «scoperto». Ora quel verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in sé stesso preso, né bello né brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali prende rilievo. Non è né «brutto» né «scoperto»; è semplicemente «immediato», non cioè passato attraverso nessun alambicco di nessuna, più o meno sapiente, più o meno di moda, deformazione letteraria. Dice, con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo più semplice e diretto possibile. Diventa bello (molto bello anche, e felice) quando, nella memoria del lettore, fa corpo col resto della poesia.
Guardavo la faccia del mio interlocutore. Bella era; e, nel senso nobile della parola, mediterranea. Consunta, logorata e segnata da qualche interna difficoltà a vivere; negli occhi — dietro gli occhiali, chiarissimi — un estremo d’intelligenza sembrava unirsi ad un estremo di malinconia. La sua faccia — che mi ricordava uno di quei paesaggi toscani troppo e da troppi secoli elaborati dalla mano dell’uomo, diventati avari — concordava esattamente col suo giudizio. Quell’uomo doveva necessariamente aver paura di un’immediatezza come di una bomba; ammirare — come egli stesso volentieri confessa — assai più Petrarca che Dante. Era, in una parola, un petrarchista. Soffriva di un male, europeo per estensione, ma italiano alle origini; e di questo male almeno, io, nato agli estremi confini della patria, o non ho mai sofferto, o solo, e non in profondità, nella mia prima giovanezza. Attraverso l’innocente verso citato e la disapprovazione che esso suscitava in Aldo Borlenghi, mi sono persuaso una ultima volta che gli italiani (che sono nella loro vita istintiva e — vedi Verdi — nella musica, uno dei popoli più immediati della terra) non sopportano, in poesia, la vita, senza averla preventivamente uccisa e mummificata. Perché poi questo processo (che essi chiamano di «astrazione lirica», ed io di «congelamento» o di «involuzione») sia avvenuto proprio per la poesia, oggi come oggi, o non lo so ancora, o non voglio ancora dirlo. Ma che sia avvenuto è certo; come pure è certo che va cercata in esso una delle ragioni sia, in generale, del loro — sotto la varietà delle apparenze univoco — petrarchismo, sia, in particolare, della, fino a ieri almeno, contrastata fortuna della mia poesia. Altre, per quanto mi riguarda, ve ne furono; ma di queste mi propongo di parlare nel difficile libro che sto per te scrivendo, e che s’intitolerà Storia e cronistoria del “Canzoniere”.
Ti saluto, caro Alberto. E faccio voti che non ti preoccupi troppo della «crisi». Anche questa passerà, la gente ritornerà a comperare libri, e tu venderai perfino Scorciatoie e Raccontini del tuo
aff. Umberto
Milano, maggio 1946.
(da una lettera di Umberto Saba ad Alberto Mondadori)
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