venerdì 5 novembre 2010

trentacinque


Trovo sul blog di Antonio questo brano di Dino Buzzati.

Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire.


E mi sorprendo delle sincronicità, di come ognuno di noi si creda individuo e sia invece l'anello di un'eterna catena di generazioni e degenerazioni, la cui sequenza si ripete tediosamente, mortalmente uguale.
Tra il 1933 e il 1939, Buzzati aveva tra i 27 e i 33 anni. Nel 1940, a 34, avrebbe pubblicato “Il deserto dei Tartari”.
Io ne ho 35, compiuti. Saranno 36 a marzo.
Dire che, a 35 anni, non ci si sente più “giovani”, oggi come oggi fa un po' ridere. Oggi si è “ragazzi” fino a 40, 45.
Però.
Però ci si specchia e si spera che quella ruga di traverso alla guancia sia frutto delle troppe risate di ieri sera, quella tra la tempia e la fronte derivi dall'intensa concentrazione. Ci si domanda perché quel dolorino da contrattura agli intercostali ci metta tanto a passare. Non sono ancora segnali d'allarme, solo paturnie; forse. Ma ci sono.
Ti chiedi se sia colpa tua o se è qualcun altro che ti ha inculato.
Perché sei sul crinale, a metà tra quello che stava per diventare uomo e quello che starà per diventare un quarantenne, e la strada ce l'hai davanti, è quella, non si scappa.
E pensi che avresti tutto per essere felice, due bambini bellissimi, una moglie che ti ama e vive solo per te, una casa, un lavoro, gente che ti stima e che ti vuole bene. Però ti prendono pensieri assurdi, illogici, masochisti: strade non percorse, corpi che non potrai mai sfiorare.
Ti dici che questa strada l'hai scelta tu, che qualunque altra in fondo non sarebbe mica migliore. Però certi scorci di città sconosciute, certi sorrisi di donna, ti si piantano nelle viscere come bisturi.
Pensi che in fin dei conti sei un gran coglione, che fuori della porta di casa c'è un pomeriggio d'autunno pieno di luce e di colori, e che faresti meglio a spegnere il computer, prendere su tua figlia e portarla a correre per i prati.

8 commenti:

lillo ha detto...

sì, a volte ci vuole il tramonto :)

che bel pezzo, sergio, mi sembrava quasi di vedermi riflesso alle specchio...

hzkk ha detto...

youtube: simon's cat in cat's chat

(come l'alternativa al tramonto)

Anonimo ha detto...

bellissimo post, io amo questo blog!
Grazie Sergio.

aL

Anonimo ha detto...

Mi piace il tag "pensieri depressivi", che implica che esista nel tuo blog un intero genere di post come questo - in cui ci si riconosce (e come si potrebbe non riconoscervisi?); e sempre si apprezza che qualcuno lo dica per noi, e meglio.
Ma il tag mi preoccupa di più.
A me viene in mente, oltre a Buzzati, Calvino, "Le città invisibili", con tutti i desideri e le memorie impossibili che vi ricorrono.
Ciao
db

sergio pasquandrea ha detto...

grazie, amici.
è un periodo un po' malinconico, per vari motivi, ma passerà

sergio pasquandrea ha detto...

@guardareleggere
questo è per ora l'unico token del type "pensieri depressivi"; ma non si sa mai.
"le città invisibili", però, calvino le pubblicò a 49 anni. devo preoccuparmi circa la senilità precoce?

amanda ha detto...

il pezzo è bello

per il commento lascio la mano per lungamente oltrepassati limiti di età, di rughe e pensieri deprimenti
:)

Anonimo ha detto...

Bellissimo post, Sergio, in cui non è difficile ritrovarsi almeno un po' (purtroppo o per fortuna).
Sull'eterno ciclo della vita, mi è tornata in mente la
frase che Langston Hughes, un poeta afroamericano che ho molto apprezzato, scrive alla fine di un suo romanzo autobiografico, "Nel mare della vita" ("The Big Sea", in originale): "La letteratura, come la vita, è un gran madre pieno di pesci. Ho gettato le reti e le ho tirate, e continuo a tirarle".
Un abbraccio.