Quando era piovuto, mio padre andava in campagna e tornava con buste intere di lumache, che lasciava in un pentolone insieme alla farina perché spurgassero.
In dialetto, le più piccole erano i ciambrachelle, le più grandi i ciambracune. Ciammarughe era il termine generico.
Poi venivano lavate e stufate, e si mangiavano in due modi: in bianco, con la menta, oppure cotte nel pomodoro.
Bisognava armarsi di stuzzicadenti, infilzare il corpicino rattrappito dal calore, estrarlo dal guscio e morderlo per strappare via le budella, che rimanevano in mano come una piccola spirale nera e molliccia.
A volte nell'agonia la chiocciola si era rintanata in fondo in fondo, e allora si spaccava il guscio con i denti per estrarla.
Le mani rimanevano sempre unte e odorose, ma era anche quello il gusto.
Mia moglie non ha mai voluto assaggiarle, e men che meno cucinarle.
(la fotografia è di Antonio Lillo)
6 commenti:
racconto d'orrore. per quanto mi riguarda di peggio c'è stato solo Edgar Poe letto al liceo. e il film Shining.
:)
beh, in fondo ogni cucina è un laboratorio degli orrori. cucinare significa, sostanzialmente, dissezionare cadaveri...
in questo caso si parla anche delle stragi :-)
povere anime..
..e gli angeli ? pollame dei poeti ?
mi sembra che qualcosa di simile disse montale a proposito degli angeli e delle americane... ;)
americano è il mio titolo per questa foto: "Apocalypse Now"
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