Capita, a volte, che le cose mostrino relazioni inaspettate e quasi inspiegabili.
Ad esempio, leggo in un'intervista a Branford Marsalis: “Quando parli con i musicisti [jazz di oggi], non ti parlano mai di emozione, è come se tutto d'un tratto diventassero atei. Sono terrorizzati da quel concetto”.
E poco dopo: “Se chiedo a un musicista: 'Conosci questo pezzo?' e lui comincia a snocciolare sequenze di accordi, allora quello è uno con cui non voglio lavorare. Perché per me la musica è fatta di melodia, non di armonia. È questo che mi dà fastidio in tanti pezzi di jazz moderno: non c'è melodia”.
Ripenso a quando una mia conoscente mi aveva fatto leggere un suo pezzo, nel quale parlava di alcuni jazzisti che lavoravano in un centro per il recupero di bambini traumatizzati tramite la musicoterapia, e io avevo detto di averlo trovato “quasi commovente”, e lei aveva replicato che non era sicura del proprio stile, e in quanto al commuoversi “non sono sicura nemmeno di questo (anche se di fatto in quell'evento mi sono commossa e non poco, è stato fantastico!), anche qui a volte ho pensato che stavo per superare il confine e finire nel 'neo-romantico'”.
E ripenso anche a quanto mi diceva un amico compositore: che si era stufato di scrivere pezzi seriali in cui le note regolarmente saltabeccavano da un'ottava all'altra e stava cercando di recuperare un po' di melodia.
E infine pensavo a una mia
annotazione di qualche tempo fa, in cui ipotizzavo che uno dei fili rossi del Novecento fosse la "colpevolizzazione del bello".
Mi pare che ci sia qualche filo a connettere tutto ciò, anche se non saprei ben dire qual è.
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