Essere
Il figlio che mai ho fatto
oggi sarebbe un uomo.
Corre dentro la brezza
senza carne, né nome.
Certe volte lo incontro
in incontri di nuvole.
Alla mia spalla appoggia
la sua nessuna spalla.
Interrogo mio figlio
oggetto tutto d'aria:
in che grotta in che guscio
in che grotta in che guscio
astratto ora cadi?
Là dove io giacevo,
mi rispondeva l'alito,
tu non mi percepisti
anche se ti chiamavo
come ancora ti chiamo
(oltre, oltre l'amore)
dove il niente, ed il tutto,
aspira a crearsi.
Il figlio che mai ho fatto
si fa da sé medesimo.
* * *
* * *
Un bue vede gli uomini
Così delicati
(più di un arbusto) e corrono
e corrono da una
parte all'altra, hanno sempre scordato
qualcosa.
Certamente, gli manca
non so che
attributo essenziale, sebbene si presentino nobili
e gravi, a volte.
Ah, spaventosamente gravi,
perfino sinistri.
Poveretti, si direbbe non ascoltino
né il canto
dell'aria né i segreti del fieno,
e nemmeno sembrano
accorgersi di ciò che è visibile
e comune a
ciascuno di noi, nello spazio. E diventano tristi
e a forza di
tristezza arrivano alla crudeltà.
Tutta la loro
espressione risiede negli occhi – e si perde
in un semplice
abbassare di ciglia, in un'ombra.
Niente nei peli,
nelle estremità inconcepibilmente fragili,
e quanta poca
montagna c'è in loro,
e che magrezza e
che rientranze e che
impossibilità di
organizzarsi in forme calme,
permanenti e
necessarie. Hanno, forse,
una certa grazia
malinconica (un minuto) e con ciò si fanno
perdonare
l'agitazione fastidiosa e il traslucido
vuoto interiore
che li rende così poveri e bisognosi
di emettere suoni
assurdi e agonici: desiderio, amore, gelosia
(che ne sappiamo
noi?), suoni che si sbriciolano e cadono nel campo
come pietre
afflitte e bruciano l'erba e l'acqua,
e difficile, dopo,
è ruminarci la nostra verità.
* * *
Officina irritata
Io voglio scrivere un sonetto duro
come nessun poeta ha mai osato.
Voglio dipingere un sonetto scuro
d'ardua lettura, secco e soffocato.
Dal mio sonetto voglio, nel futuro,
che nessuno mai venga consolato,
che con fare maligno ed immaturo
al tempo stesso sia, e non sia stato.
Questo verbo antipatico e impuro
saprà d'aspro e dolore sul palato,
tendine di Venere al pedicure.
Ignoto a tutti, colpo contro il muro,
cane che piscia nel caos, però Arturo,
chiaro enigma, resti meravigliato.
* * *
Confessione
Non ho amato abbastanza il mio simile
non ho tolto il verme né curato la rogna.
Ho solo profferito qualche parola
melodiosa, tardi, tornando dalla festa.
Ho dato senza dare e baciato senza baci.
(Cieco è forse chi nasconde gli occhi
sotto la branda). E nella penombra
si sciupano tesori, i più eccellenti.
Di ciò che resta, come comporre un uomo
e tutto ciò che egli implica di soave,
di concordanze vegetali, mormorii
di risa, dono, amore e pietà?
Non ho amato abbastanza nemmeno me stesso,
per quanto prossimo. Non ho amato nessuno.
Salvo quell'uccello - veniva azzurro e pazzo -
che si è sfracellato sull'ala dell'aereo.
* * *
Officina irritata
Io voglio scrivere un sonetto duro
come nessun poeta ha mai osato.
Voglio dipingere un sonetto scuro
d'ardua lettura, secco e soffocato.
Dal mio sonetto voglio, nel futuro,
che nessuno mai venga consolato,
che con fare maligno ed immaturo
al tempo stesso sia, e non sia stato.
Questo verbo antipatico e impuro
saprà d'aspro e dolore sul palato,
tendine di Venere al pedicure.
Ignoto a tutti, colpo contro il muro,
cane che piscia nel caos, però Arturo,
chiaro enigma, resti meravigliato.
* * *
Confessione
Non ho amato abbastanza il mio simile
non ho tolto il verme né curato la rogna.
Ho solo profferito qualche parola
melodiosa, tardi, tornando dalla festa.
Ho dato senza dare e baciato senza baci.
(Cieco è forse chi nasconde gli occhi
sotto la branda). E nella penombra
si sciupano tesori, i più eccellenti.
Di ciò che resta, come comporre un uomo
e tutto ciò che egli implica di soave,
di concordanze vegetali, mormorii
di risa, dono, amore e pietà?
Non ho amato abbastanza nemmeno me stesso,
per quanto prossimo. Non ho amato nessuno.
Salvo quell'uccello - veniva azzurro e pazzo -
che si è sfracellato sull'ala dell'aereo.
Carlos Drummond de Andrade
(da “Claro enigma”, 1951; traduzione mia)
(da “Claro enigma”, 1951; traduzione mia)
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