Fra le cose che mi ero ripromesso per quest'estate c'era anche il leggermi qualche bel tomone ottocentesco, spesso, fitto fitto. Ed ecco qua questo “Oblomov”, di Ivan Aleksandrovič Goncharov (1812-1891): edizione Utet 1964, piuttosto malconcia, comprata chissà quanti anni fa su chissà quale bancarella dell'usato. Settecento e rotte pagine, spolpate in meno di una settimana, come non mi succedeva da... boh, da quando? Forse dall'adolescenza.
La prima parte del libro è la più celebre. Ilja Iljič Oblomov, rampollo di una famiglia aristocratica un tempo fiorente, giace sul suo letto, in un polveroso e affastellato appartamento pietroburghese. Per duecento pagine, non farà assolutamente nulla: resterà coricato, battibeccherà con il fedele e losco maggiordomo Zachar (con il quale intrattiene un complicato rapporto di odio-amore), riceverà – senza mai alzarsi né togliere la veste da camera né radersi – visitatori e amici, si angustierà il freddo, le (immaginarie) malattie e i debiti che, lo sa lui stesso, non saranno mai saldati. Fra una visita e l'altra, si addormenta e sogna il suo villaggio natìo, la casa paterna, la sua infanzia di bimbo iperprotetto. Nei rari momenti di lucidità, cerca invano di portare a termine il grande progetto che porterà il benessere e la prosperità ai contadini; oppure si lamenta della bella vita, quieta e senza affanni, che non arriva mai. Ma, da solo, non saprebbe nemmeno infilarsi le calze.
Oblomov non è cattivo: non ne ha la fibra morale. Anzi, è un buono (“il buono che derideva Nietsche”, direbbe Gozzano), sogna un mondo dove tutti si amino, disprezza l'ipocrisita dell'alta società, è talmente incapace di concepire il male da cacciarsi, per pura bonomia e dabbenaggine, nelle mani dei peggiori truffatori. Nella seconda parte del romanzo, si conquista l'amore di Olga, donna giovane, bella, intelligente, volitiva, che sogna di redimerlo dall'apatia, ma poi lo abbandona quando capisce che la sua malattia, l'oblomovismo, è incurabile. Nemmeno i tentativi dell'iperattivo amico Andrej valgono a scuotere Oblomov dal torpore. Egli morirà in pace, dopo essersi ricostruito il suo pezzettino di Eden nella persona di Agafja, stolida e materna vedova che lo ama e lo accudisce come un neonato.
Goncharov concepì il personaggio di Oblomov soprattutto come satira di una precisa classe sociale, quella dei barin, i proprietari russi imbelli e parassitici. Eppure noi, oggi, possiamo attribuire a Ilja Iljič una sua tragicomica grandezza: questo sognatore, inadatto a vivere, perso nelle sue fantasie di regressione uterina, è forse l'involontario precursore dei tanti inetti che popoleranno la letteratura del Novecento.
Finiamo con una confessione personale: c'è un Oblomov, nascosto in fondo al mio stakhanovismo. A cercare bene, ce n'è uno in fondo all'animo di ciascuno di noi. E in fondo, non è il segno ultimo della grandezza di un lavoro letterario, quello di saper creare un personaggio universale, che sopravviva persino alle intenzioni del suo autore?
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