sabato 21 gennaio 2012

rovi


L’aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. Una generazione
di giovani taccole è iniziata
alla taccolità – quel complicato
galateo di convenzioni

e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Quasi un universo carcerario – con sbarre
di gridi e di segnali. I carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi la strada
tra il groviglio dei rovi

di nuovo ho pensato: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così ben congegnate,
le loro estensioni così deliberate, sono coscienti?
Di certo un qualche nimbo di dolore e di piacere

risiede sul loro nudo diadema,
la loro offerta sessuale. Di certo non sono insensibili,
un cieco brancolare. Eppure, perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
E persino i neuroni, che cosa sentono o temono

del bisturi o dell’incidente?
Anch'essi incoronano una pianta
di singolare insensibilità. E le taccole
operano oscuramente per esser taccole
come fossero semi nella terra.

L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
reticenti come un qualsiasi fiore di rovo.

Ted Hughes


(la traduzione è ripresa da qui - con qualche correzione mia;
l'originale si può leggere qui, andando un po' giù nella pagina)

2 commenti:

Marco Bertoli ha detto...

Bravo a ricordare Hughes, del quale i più sanno solo, quando pure lo sanno, che fu marito di Sylvia Plath. A me il talentuoso della famiglia è parso sempre lui, fra l'altro sottile interprete di Ovidio.

sergio pasquandrea ha detto...

Beh, è chiaro che la fama della Plath fa aggio anche su questioni, diciamo così, extra-letterarie.
Hughes lo trovo straordinario quando, come qui, parla della natura: piante, animali. Oltretutto, i suoi versi sono densissimi, molto difficili da tradurre.