venerdì 13 gennaio 2012

corsi e ricorsi storici (ovvero: la seconda volta è sempre una farsa)


Testimone diretto della battaglia di Farsalo, Asinio [Pollione] [...] ricordava e affidava ai posteri le parole che Cesare aveva pronunciato al cospetto del campo coperto delle migliaia di corpi dell'esercito sconfitto: "Lo hanno voluto loro! Se io, Gaio Cesare, compiute così grandi imprese, non avessi fatto ricorso ai miei soldati, sarei stato trascinato davanti a un tribunale e condannato" [citato in Svetonio, Cesare, 30, 4: "haec eum ad verbum dixisse: Hoc voluerunt; tantis rebus gestis, Gaius Caesar condemnatus essem, nisi ab exercitu auxilium petissem"]. Asinio scrive circa vent'anni dopo Farsalo e registra quelle parole perché esse racchiudono una cruda presa di posizione da parte di Cesare: se non avessi fatto ricorso alla insurrezione, se mi fossi piegato, anziché ricorrere "all'aiuto dei soldati", sarei stato portato - ormai privatus [privato cittadino] - davanti a un tribunale e distrutto per via giudiziaria. Si deve certamente ad Asinio la precisazione, che leggiamo in Svetonio, che quelle erano state esattamente (ad verbum) le parole di Cesare: una precisazione che si spiega con il rilievo che Asinio attribuiva (non a torto) a quella dichiarazione autentica, fatta in un momento solenne e tragico di fronte a un campo disseminato di morti, concittadini. E invero quella dichiarazione così aspra, e così circostanziata, forniva una chiave per interpretare la scelta cesariana di accettare la sfida fino al passo estremo della insurrezione contro la repubblica: era stata, per Cesare, l'unica via per scampare alla certa, e forse distruttiva, persecuzione giudiziaria che i suoi avversari tenacemente tenevano in serbo da quasi dieci anni.

Così Asinio, fonte non sospetta [in quanto di parte cesariana], faceva conoscere, dopo vent'anni, la vera ragione, da Cesare stesso dichiarata, della scelta di rottura compiuta nel gennaio del 49. E smentiva, ovviamente, in questo modo, la propaganda cesariana affidata ai commentarii, dove campeggia - come causa del conflitto - la difesa dei diritti dei tribuni [Svetonio liquida questa versione dei fatti, cara a Cesare, come "praetextum" (Cesare 30, 19)] e la difesa della sua personale dignitas, offesa.
Svetonio, [...] al tempo stesso, fornisce dati di fatto che completano il quadro e aiutano a capire. Ci fa sapere, ad esempio, che Catone aveva ripetutamente promesso, "confermandolo con un giuramento", che avrebbe denunciato Cesare, "non appena questi avesse licenziato le truppe", e lo avrebbe trascinato in giudizio per le illegalità commesse durante il consolato del 59. Allora non era stato possibile: dall'imperium consolare Cesare era passato senza soluzione di continuità ai poteri, a lungo, protratti, di proconsole: e infatti puntava (fino ad un certo momento con l'accordo di Pompeo) ad una elezione in absentia onde passare daccapo, senza interruzioni, dal proconsolato al secondo consolato e così rimanere giudiziariamente inattingibile. "Nel popolo - commenta Svetonio - si diceva che, se fosse ritornato come privato cittadino, avrebbe dovuto [...] difendersi davanti ai giudici, in un tribunale circondato da guardie armate". E qui soggiunge che proprio la testimonianza di Asinio - il quale riferiva quelle schiette e crude parole, dette da Cesare in cerchia ristretta al momento stesso della vittoria - sembra confermare che quella diffusa diagnosi sulla vera causa della guerra civile cogliesse nel segno.

Luciano Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza 2009, pp. 149-151

Nessun commento: