mercoledì 22 settembre 2010
l'estate è finita
A ripensarci bene, non è che sia passato tutto questo tempo. Era la fine degli anni Settanta, forse i primi anni Ottanta.
Si partiva in macchina (ricordo in particolare la Renault 5 color sabbia, praticamente un grosso uovo con le ruote, ma ce ne sono state altre, prima e dopo). Mattina presto, per essere al mare all'ora migliore. Senza cinture né seggiolini né airbag, ovvio. Ne siamo usciti tutti vivi, comunque.
Il tragitto, ad ogni modo, non era lungo: venti, trenta chilometri, una mezz'oretta sulla vecchia statale. Otto di mattina, l'aria sul Tavoliere cominciava già a tremolare per la calura. Stazioni fisse: la masseria con le bufale che si bagnavano nel fango (al ritorno ci si compravano le mozzarelle); San Nazario, vecchia chiesetta in mezzo alla campagna, famosa per le pozze d'acqua dolce immerse tra i canneti e brulicanti di girini; e infine il Lago di Lesina, la lunga e stretta lingua di sabbia che separa la laguna dal mare, con il paese vecchio da una parte e quello turistico dall'altra, le case bianche in lontananza.
Le spiagge: Torre Fortore, Torre Mileto, a volte Lido del Sole o Capoiale. Quasi su ognuna, c'era un'antica torre di guardia, chiusa, mezzo corrosa dal sale. La macchina parcheggiata direttamente sul margine della spiaggia (niente parcheggi asfaltati, anzi, niente parcheggi e basta).
Spiaggia libera (quelle a pagamento erano pochissime), l'ombrellone piantato da mio padre scavando in profondità nella sabbia sempre più fresca e umida. Quando era bassa marea, a pochi metri dalla riva emergeva la secca, meta privilegiata dei giochi.
Scorpacciate di canolicchi e telline, rigorosamente appena pescati, crudi e ancora vivi, senza temere inquinamento e malattie. Scendevi in mare, facevi quattro o cinque metri e tiravi su una manciata di sabbia, e dovevi essere proprio sfortunato se non ti rimaneva in mano qualcosa. In genere telline, se andava bene anche una vongola, o un cardium con la conchiglia striata e convessa, con dentro il mollusco color porpora.
I ricci li riportava mio padre dagli scogli: si aprivano e si succhiava l'interno, di color rosso vivo come un piccolo cuore pulsante. Idem per le patelle, staccate con il coltello, salatissime, dure come gomma sotto i denti.
Il bagno fin quando i polpastrelli si arricciavano. Meglio se c'erano le onde, meglio ancora i cavalloni nei quali ci si tuffava trattenendo il fiato, riemergendone pieni di sabbia e alghe. Ogni tanto un po' di catrame sotto le piante dei piedi, che andava smacchiato con olio e ovatta.
Complicate opere di ingegneria sabbiosa. Altro che castelli: bacini, dighe, canali di derivazione e di svuotamento, interi sistemi idrici, e poi altissime guglie fatte con la sabbia bagnata colata giù dal pugno. Tutto effimero, perciò ancora più bello.
Il ritorno era verso mezzogiorno, quando la spiaggia cominciava ad arroventarsi. La macchina, un forno (niente aria condizionata: siamo sopravvissuti anche a questo), la sabbia nelle ciabatte e nel costume.
Per strada, si attraversava spesso il fumo nero, acre e denso delle stoppie accese. Il fuoco bruciava, quasi sempre incustodito, a pochi metri dalla strada.
Lungo la statale, camion che vendevano angurie e meloni. Angurie enormi, da dieci o dodici chili, che mio padre sceglieva tamburellandoci sopra. E certe piccole pere verdi, durissime e dolcissime.
E poi i granchi: mio padre ne riportava a casa secchiate (si nascondevano nella sabbia, lasciando emergere solo gli occhi e le chele: inutile), li metteva nel lavabo e pescava da quella massa brulicante e ticchettante, e a forbiciate tagliava via tutte le zampe e le chele. Le articolazioni delle chele, minuziose come minuscoli meccanismi.
Non morivano subito: per un po' continuavano a macinare bollicine dalla bocca. Erano morti quando l'addome, prima ripiegato strettamente sotto il carapace, si rilasciava assumendo l'aspetto di una piccola coda.
Poi ci si faceva il sugo.
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2 commenti:
e pensa che, se io penso alla Puglia , penso al basso Salento e se penso al basso Salento per me il mare è ancora simile a come descrivi il mare della tua infanzia; mentre il mare della mia infanzia è già un incubo jesolano, con i galbaleoni (pupazzi gonfiabili della galbani) vinti correndo dietro ai paracadute di plastica lanciati dagli aerei pubblicitari con teste di bambini cocciate per guardare per aria, granite ai baracchini, ombrelloni e sdraio già a pagamento, palazzoni a ridosso della sabbia, radioline a manetta. Però anche qui la frutta la vendeva il contadino appena appena nell'entroterra e la sabbia si insinuava ovunque ed uno dei miei piaceri sommi,fin dall'età di 4 anni, era mangiarmi un piatto di impepata di cozze di cui ero ghiottissima, ma si compravano non si trovavano, già allora
il salento, pur essendo pugliese, lo conosco poco (ma considera che dal mio paese a lecce sono quasi 300 km).
da quel che ho visto, lì il mare è ancora incontaminato o quasi; purtroppo, non si può dire lo stesso del gargano, o almeno della parte nord-occidentale, che in genere frequent(av)o io.
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