Marco Belpoliti, Crolli, Einaudi 2005 (142 pp.,7 €)
Di questo libro non ricordavo niente: né quando lo avevo comprato, né dove, né perché. È strano, dato che in genere dei miei libri conservo una mappa mentale precisa come uno schedario. In realtà avevo allungato la mano sullo scaffale per prendere un altro libro, sempre di Belpoliti, che era accanto a questo, poi l'ho visto, mi ha incuriosito e ho deciso di leggerlo.
Il testo prende inizio dalla constatazione che gli anni Novanta sono stati aperti e chiusi da due crolli speculari e simmetrici: nel 1989 quello del Muro di Berlino, nel 2001 quello delle Twin Towers. Il primo è stato “un evento gioioso e collettivo, una grande festa, un happening durato parecchi giorni [...] che l'Europa, l'intero mondo, hanno salutato come l'inizio di una nuova epoca”; il secondo “è invece un evento angoscioso, tragico, carico di valenze simboliche”. Il primo indica l'apertura di uno spazio di dialogo e speranza, il secondo la sua chiusura.
Partendo da qui, Belpoliti segue il tema delle macerie, delle rovine, rintracciandolo nell'arte e nella cultura della seconda metà del Novecento: i ventitré densi paragrafi che compongono il libro attraversano soprattutto la letteratura e le arti visive, ma non mancano riferimenti al cinema, al fumetto, alla filosofia.
Passano così in rassegna le macerie delle città tedesche distutte dai bombardamenti; i film catastrofici; i saggi di Susan Sontag, Hermann Broch e Milan Kundera sul kitsch (uno dei temi centrali del libro: il kitsch come nemico dell'arte o come ultima frontiera dell'arte stessa, che riutilizza le macerie della cultura crollata); le opere di Man Ray, Andy Warhol, Matthew Barney e Maurizio Cattelan; i tentativi degli scrittori americani di raccontare l'11 settembre; le riflessioni di filosofi e antropologi sulla cultura del secolo appena trascorso; gli edifici vuoti di Pripjat', la città evacuata dopo la catastrofe di Chernobyl; le pagine di Walter Benjamin sulla Berlino anteguerra; fino al crollo estremo, abissale: lo sterminio degli ebrei, che ha lasciato un vuoto morale e culturale proprio al centro del Novecento.
Alla fine, la conclusione di Belpoliti è che la nostra non è l'età dell'apocalisse, del “tempo ultimo”, ma piuttosto quella del “tempo penultimo”, del tempo che precede sempre una fine che non arriva mai. L'età dei piccoli crolli, dell'equilibrio instabile, dell'incertezza che non trova mai un punto di assestamento.
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