lunedì 29 giugno 2009
schermaglie d'amore - 1
Orazio, Odi, I, 5
Quis multa gracilis te puer in rosa
perfusus liquidis urget odoribus
grato, Pyrrha, sub antro?
cui flavam religas comam,
simplex munditiis? heu quotiens fidem
mutatosque deos flebit et aspera
nigris aequora ventis
emirabitur insolens,
qui nunc te fruitur credulus aurea,
qui semper vacuam, semper amabilem
sperat, nescius aurae
fallacis, miseri, quibus
intemptata nites. me tabula sacer
votiva paries indicat uvida
suspendisse potenti
vestimenta maris deo.
* * *
Chi è il ragazzo esile che ti incalza
tra le rose, cosparso di profumi,
Pirra, nel fresco della grotta?
Per chi intrecci i capelli biondi
in semplice eleganza? Oh, quante volte
piangerà la promessa e gli dei volubili
e guarderà inesperto i neri venti
sulle acque crudeli,
lui che ora gode il tuo splendore,
che ti spera sempre dolce e fedele,
e non sa nulla del vento ingannevole.
Infelici coloro per i quali
baleni ancora intatta. Io ho offerto
(testimone la tavola votiva
sospesa alla parete) le vesti
umide al potente dio del mare.
sabato 27 giugno 2009
on holiday
Sono in ferie per un paio di settimane.
Mi porterò sulla spiaggia:
- Harold Bloom, Il canone occidentale (da finire);
- James Baldwin, Un altro mondo (cominciato un paio di mesi fa e abbandonato per sopraggiunti impegni);
- Claudio Sessa, Le età del jazz. I contemporanei (questo è per lavoro);
- forse un libro di Stephen King (non l'ho mai letto e sono curioso);
- un mattone a scelta (candidato probabile, L'idiota di Dostoevskij, comperato in tempi remoti e mai aperto);
- forse, per tacitarmi la coscienza, Metafora e vita quotidiana di Lakoff e Johnson, che avrei dovuto leggere già da un pezzo.
I prossimi post usciranno in automatico (o almeno spero: ultimamente blogspot sta facendo strani scherzi), ma non so se e quando potrò guardare i commenti e rispondere.
Stay tuned.
venerdì 26 giugno 2009
jacko
Eppure devo confessare di non aver mai apprezzato molto Michael Jackson. Mi ha sempre dato fastidio il modo in cui rileggeva la grande tradizione della black music in una salsa pop, spesso fin troppo dolciastra.
Non dico che non fosse bravo, per carità: straordinario ballerino, cantante di ottime doti, provvisto anche di solide capacità autoriali, perlomeno fino a tutti gli anni Ottanta. Però quello di Jackson è stato uno dei primi casi in cui la costruzione mediatica del personaggio (sempre presente, sia chiaro, nella popular music: basta pensare a Elvis o ai Beatles o, prima ancora, a Sinatra) comincia a diventare preponderante rispetto alle qualità musicali.
Nel suo caso, le qualità c'erano: ma non ci sarebbe voluto molto perché diventassero un optional. Jacko è il preludio a Madonna, a Britney Spears, alle Spice Girls, insomma al Nulla musicale avvolto dai lustrini dell'astuzia comunicativa.
Madonna ha costruito il suo personaggio a tavolino e l'ha manovrato come una docile marionetta. Jackson subito la sua immagine di eterno Peter Pan e ha finito per soccombere.
evoluzioni non lineari
Poi si dà un'occhiata alla musicologia e ci si accorge che uno dei popoli più antichi del mondo, i pigmei Baka dell'Africa Centrale, conserva un'antichissima tradizione polifonica, di straordinaria complessità:
Molti studiosi hanno trovato che in questi intrecci poliritmici si possono riscontrare gli stessi principi costruttivi usati dai compositori dell'Ars Nova medievale, a riprova del fatto che certe tecniche sono universali, dettate dall'essenza stessa del materiale sonoro.
E anche in Italia abbiamo non solo il celebre canto a tenores sardo, ma anche altre forme di canto polifonico popolare, come il "trallallero" ligure:
In Asia abbiamo la polifonia tradizionale georgiana, anch'essa di antichissima origine:
E si potrebbe continuare a lungo.
Conclusione: mai fidarsi dei pregiudizi.
Conclusione 2: l'arte non è mai lineare.
giovedì 25 giugno 2009
dissipazione
Così scriveva, tempo fa, Chistian Raimo su Nazione Indiana.
Victor Cavallo (Roma, 8 maggio 1947 - 21 gennaio 2000), nome d'arte di Vittorio Vitolo, fu uno dei pochi personaggi autenticamente bukowskiani che abbiamo avuto qui in Italia (e ce ne vuole per essere bukowskiani autenticamente, senza pose e senza gnegnè).
Cominciò a fine anni Sessanta nel teatro underground, ma la maggior parte del pubblico lo ricorda soprattutto come caratterista, a volte in film d'autore (Tragedia di un uomo ridicolo, Pasolini un delitto italiano, Il grande cocomero, Verso sera), altre volte in fiction televisive (La piovra, Ultimo), altre ancora, purtroppo, in infami filmacci trash che mi rifiuto anche di nominare.
Ma Cavallo fu anche un poeta. I suoi testi sono lunghi flussi di coscienza, rimuginati durante le interminabili camminate nei quartieri romani, Magliana Garbatella Laurentino piazza Vittorio.
Qui frammenti di un film su di lui.
Di seguito qualche poesia.
* * *
Isole Tremiti. Una febbretta dentro il nuovo sole - una malcerta ferrovia
di campagna. un tram storto dietro i portici. un cuore che guarda sempre
vecchi film.
I fantasmi sono i primi a gioire della ventura primavera
dell'erba che spacca i sanpietrini respirare mostri col cuore ingordo di dolcezza.
Ah questo cuore che sale le scale degli ospedali che gira a Porta Portese
che vomita chiama tace come un cane bastonato come una gabbietta vuota
e grida come un gommone rovesciato.
Mi sento povero di occhi.
traversa il viaggio paesi stranieri, la magliana, laurentino
si ferma alle stazioni ferme nel cielo bianco, come sconosciute piazze.
Mi è estraneo questo camminamento l'aria vuota come un'Hiroshima
è meno faticoso così comprendere (se) il senso del futuro
(come dice il ragazzo)
(l'incidente è aperto)
La morte nera genera mostruosi animaletti che mordono il cuore e fuggono
immobili
la morte nera abita gli uffici postali l'anagrafe la questura
il mondo come rappresentazione senza volontà
(E' da ieri che volevo dirti che mi è finito il tu però mi sbaglio
perché le ombre mi sussurrano vicino e chiamano la voce nella tempesta
nel deserto nei portici i cani muti che mordono bernini e michelangelo)
(bravi!)
E' di tristizia questo vialone breccolato di nuvole e farmacie
è di tristizia questo canto tutti insieme
c'è tristizia
(Dopo è incerto tra pizzette calde pizze in faccio e sonno)
* * *
lacrime, e che sono, in questo via vai d'infarti e di sorrisi
di polmoni abbarbicati alle flebo come edere sigarette fumate fuori del terrazzo tra le bombole di merda
e facce che d'improvviso cadono sotto le mascherine igieniche e giardini dove si va a piangere senza che nessuno sappia - lacrime.
lacrime come tramezzini bus tardatari appoggiati al palo
facce all'ingresso dell'Hospital via Portuense affumicata è un angolo di moschini davanti all'inferno
oh ( che lungo cammino giungere fino al seno)
l'alba avanza veloce nel cielo tra i palazzoni
sembrava un uccellino senza ali ed era un'aquila disperata
(noi fermi a uno scalino leggevamo di Vieri e di Di Biagio
finché fu freddo il marmo sotto il culo
e dal blù scuro il cielo divenne chiaro.
e i colombi si scambiavano le prime carezze chissà da quale desio chiamati.
E venne un uomo o una donna
e mi disse che l'infinito era dopo i portici, invisibile e muto come
un tabaccaio chiuso.
erbe gelsomini magnolie rose corriere dello sport tutte le sise
l'ombelico gli occhi l'infinito tutto
e io mi storcevo come un tram rotto
* * *
Piove sotto i portici di Holderlin e Del Sol
di certo è marzo e come un deficiente io cammino e mi chiamo da solo: Vittorio
(vorrei sdraiarmi su un banco umido di pesce)
Preparavano il mercato. Pulivano: E un lavorante ha emesso una meravigliosa
scureggia e mi ha guardato.
(Bello de papà)
ansima il cuore a sbrandelli di alcool e seghe De Pisis
(morire e perché mai? lo vorrà Allah) (quando lo vorrà)
Ah brocca brocca vaso de coccio tra i ferri arrugginiti
brocca di mandorlo e merda brocca di bacio di ricordo di ciliegio
tutto fu quella curva sbagliata sul brecciato
(ma sbagliare a 16 anni è dono degli dei)
e poi almeno questo del cuore: essere stronzi.
* * *
3 AP
sentono i venti le mongolfiere, e dalla mongolia vanno verso via tiburtina.
così mi sembra questa mia mattina scervellata. il sole batte sulla capoccia
bianca d'un vecchio in attesa di bus.
Verrà la primavera e sarà un soffio che a guardarsi indietro le foglie già saranno autunno
Bikini stracciati dai ghiaccioli bruciati, cipressi senza rinnovo di passaporto
(gli uomini vanno e vengono senza dire un cazzo)
senza cotolette d'abbacchio senza orecchini verdi senza aurora senza cosce senza senza.
Lentamente a Piedi traverseremo il mare mio figlio e io e andremo al Maracanà
a cacare sulla faccia vaiolata della solitudine,
sarà un attimo dai colori giallo oro verde blu rosso. la vita è lunga
* * *
AP
A ciascuno il non suo. il giorno illuminato dal sole il liquore pagato le sveglie mute
(ascolto i passeretti e chissà quanto può essere infinita l'innocenza la grazia d'essere uno stronzo blu) (celeste)
Vorrei sognare a volte col rumore assordante d'una motoretta a scappamento rotto
per svegliarmi altrove.
Chi ansima o la trova subito o non la trova più.
Stanotte sognai il mio primo amore che fuggiva verso Firenze su un treno che maledetto ho mancato.
Amore se io fossi un nibbio e tu fossi un girasole
ci incontreremo tra i semi e le molliche
io sperso e tu incantata
* * *
MAGGIO 1999
si sposta lentamente il cielo come nel letto una ragazza stanca
(come una padreterna profumata di rosa)
mercoledì 24 giugno 2009
recensioni in pillole 19: "Il labirinto"
Libro comprato, non so più quando, su una bancarella dell'usato.
Mi aveva colpito il titolo; aprendolo mi ero reso conto con sorpresa che si trattava di prose e non di poesie (non sapevo che Caproni fosse anche narratore); e infine mi era piaciuta qualche frase letta qua e là. Poi, come al solito, era rimasto su uno scaffale in attesa.
Credo sia tuttora l'unica raccolta di racconti di Giorgio Caproni disponibile in commercio; dovrebbe esisterne una riedizione del 1992 negli "Elefanti" della Garzanti, quella riprodotta nell'immagine qui accanto. Raccoglie tre testi narrativi scritti negli anni '40, il più lungo di una cinquantina di pagine, il più breve di una quindicina scarsa.
"Giorni aperti" (1940) è la cronaca quotidiana di un reggimento di fanteria sul fronte italo-francese, nei primi mesi della Seconda Guerra Mondiale. I giorni passano tra marce, spostamenti in treno o in macchina, accampamenti, ozio, fatica, cameratismo, piccole avventure con gli abitanti dei paesi attraversati. Il fronte è lontano, appena intravisto, e la vita sembra scorrere in una sorta di lieta, giovanile incoscienza. Nonostante il tema, è un racconto lieve, a volte quasi picaresco.
Del tutto diverso il secondo, "Il labirinto" (1944-45), in cui c'è un gruppo di partigiani in fuga fra le montagne, in pieno inverno. Il "labirinto" è quello delle scelte da compiere: scappare o fermarsi? rifugiarsi in una casa ospitale o affrontare la notte all'aperto? e i tedeschi, ci saranno ancora dietro o li avremo seminati? e la ragazza che ci indica la strada è un'amica o una spia? ed è giusto uccidere per odio, per vendetta? è lecito provare pietà per il nemico? Una narrazione tesa, carica di angoscia, percorsa da ossessive immagini di morte.
E la morte è anche il tema del terzo racconto, "Il gelo della mattina" (1947). Un uomo passa l'ultima notte con la donna amata, moribonda, e si confronta con se stesso, con la propria viltà e i propri sensi di colpa, con un misto di odio e pietà, amore e risentimento.
Quella di Caproni è una prosa lirica, che spesso si contrae in costruzioni ellittiche o si inarca in immagini poetiche o accostamenti verbali inaspettati.
Una bella scoperta.
martedì 23 giugno 2009
la reggia di caserta - raccontino estivo
La conoscete la Reggia di Caserta? Ma sì, tutti la conoscono. Ci vengono i turisti dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, dal Giappone perfino. Anch'io una volta ci volevo andare.
Perché sapete, ero in vacanza tra Campania e Lazio, in un piccolo campeggio proprio sulla foce del Garigliano, uno di quelli che piacciono a me, spartani, semplici, poco affollati, silenziosi, puliti (troppo puliti, persino: una implacabile signora albanese faceva la guardia ai cessi, non facevi in tempo a uscire che quella si fiondava sulla tazza per eliminare ogni residuo della tua evacuazione).
Il bar apriva quando e se il proprietario ne aveva voglia, l'animazione si limitava a qualche spettacolino per bambini e adolescenti: niente tunzi-tunzi fin nel cuore della notte, niente schiamazzi o finti carnevali di Rio. La spiaggia era piccola ma, per gli standard del posto, dignitosa. Nel senso che (quasi) tutta la spazzatura rimaneva relegata tra i pini e la macchia mediterranea. Noi la usavamo come segnaletica: entravamo in spiaggia tra la carcassa del divano beige e lo scafo sfondato del pedalò, poco dopo la bombola del gas che, completamente rosa dalla ruggine e dal sale, spuntava da sotto una duna come un minaccioso residuato bellico.
Ma dicevo di Caserta. Decidiamo di andarci un martedì (si sa, in genere il lunedì i monumenti chiudono).
Sulla cartina non pareva lontano, prendevi una stradina interna fino a Capua, poi qualche chilometro di autostrada ed ecco Caserta. Già, ma… Caserta Nord o Caserta Sud? Dio mio, pensiamo, qui hanno solo la reggia, la segnaleranno. Niente. Scegliamo Caserta Sud. Chiediamo lumi al casellante che ci risponde con un sorrisino (sa tutto, la carogna): "Era meglio uscire a Caserta Nord". E noi come cavolo facevamo a saperlo? Pazienza, seguiamo per Caserta; la strada attraversa quartieri di tristi capannoni e desolate periferie industriali. Senza dircelo, tutti pensiamo a “Gomorra”.
La reggia ci si para davanti per miracolo, in fondo a un lungo viale rettilineo. Che culo, pensiamo, beccata al primo tentativo. Macché: in fondo al viale c'è una inesorabile barriera di legno e cellophane che sbarra l'accesso. Giriamo a destra, l'unica alternativa possibile. E qui comincia l'odissea.
Magicamente, ogni cartello scompare. Si va a destra o a sinistra? Proviamo a destra, così a naso. Finiamo in un cul-de-sac, probabilmente il retro di una stazione ferroviaria, in mezzo a binari morti. Torniamo indietro, prendiamo a sinistra. Quasi invisibile nel mezzo di un infernale incrocio senza diritti di precedenza, un minuscolo cartello indica “Reggia” puntando esattamente al centro fra due strade. Prendiamo, ovviamente, quella sbagliata.
Dopo aver vagato per altri dieci minuti, un altro cartello indica un vicolo. Svoltiamo e scopriamo di trovarci contromano. Un vigile si avvicina, gli spieghiamo l'accaduto. "Sì, hanno appena cambiato il senso di marcia, ancora non hanno aggiornato il cartello. Girate lì in fondo". Giriamo dove indicato e, finita la manovra, il vigile è sparito insieme alle nostre speranze di ottenere un'indicazione. Dopo un altro quarto d'ora, un altro cartello. Lo seguiamo, e ci troviamo nel bel mezzo di un incrocio chiuso al traffico, con tanto lavori in corso. Dall'altro lato della strada, una agente della polizia municipale si sporge dal finestrino agitando la mano nel classico gesto di domanda. Capisce la situazione e ci indica a gesti la via di uscita.
Raggiungiamo la reggia grazie alle indicazioni di un passante impietosito. Infiliamo per grazia divina l'entrata del parcheggio, quindi usciamo rincuorati.
L'immenso piazzale è un labirinto di palizzate e teli di plastica. Lavori di rifacimento, spiega un cartellone. Sbirciamo in uno strappo della plastica e scorgiamo una distesa di erbacce alte quanto un uomo, selvagge, incolte. Un tizio cerca di venderci orologi falsi, bigiotteria di cattivo gusto e sfere di cristallo con Caserta sotto la neve.
Arriviamo davanti alla reggia, dove è riunito un capannello di turisti smarriti. Un usciere sta spiegando che la reggia è chiusa, perché chiude il martedì. Non il lunedì, come tutti i musei e i monumenti di questo mondo. "È così da giugno. Prima chiudeva il lunedì, poi hanno cambiato orario".
L'usciere ci fa intendere che sta facendo un grosso sacrificio nel rispondere, lui è qui solo per fare la guardia. Illustro la situazione a un gruppo di turisti polacchi. Stentano a crederci: siamo sotto Ferragosto, piena stagione turistica, e l'intero monumento è chiuso, per tutta la giornata. "E noi sennò quando puliamo?", spiega una signora con secchio e scopa.
Il parco della reggia balena in fondo al cortile, splendido, verdissimo, irraggiungibile.
Ovviamente dobbiamo pagare la sosta, un euro per venti minuti. All'uscita del parcheggio (non all'entrata) un piccolissimo cartello ci informa che la reggia chiude il martedì (grazie, lo sappiamo già) e che non sono previsti rimborsi (non avevamo dubbi).
Riprendiamo l'autostrada, torniamo al campeggio. È così che non ho visto la reggia di Caserta.
lunedì 22 giugno 2009
ancora lui
Sì, lui: KoSSiga. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.
Sul Corriere della Sera di oggi, il "Presidente emerito della Repubblica" (così si firma) interviene nella vicenda delle escort (leggi: mignotte d'alto bordo) pagate da Papi-Silvio.
E lo fa con una lettera aperta, nella quale, con l'abituale lucidità e autorevolezza, elargisce paterni consigli all'Hugh Hefner di Arcore.
Vi lascio il piacere di gustarveli, sottolineo solo quelli che mi son piaciuti di più:
- "Non chiedere scusa a nessuno, nemmeno agli italiani", che nella sua tracotanza fascistoide si commenta da solo.
- "I Kennedy erano puttanieri peggio di te e hanno zone d'ombra che la giustizia americana non ha mai indagato". Della serie: "e che, loro sì e tu no?";
- "Vendi Villa Certosa perché è troppo espugnabile". In parole povere: tromba in luogo più sicuro.
tre poesie di veronica raimo
Ma si può essere, allo stesso tempo, così belle e così brave? Sì, si può.
(E, tra parentesi, sarà sessista dire che una donna è bella? Mah, chissenefrega).
Veronica Raimo è nata a Roma nel 1978, scrive poesie e romanzi, ha pubblicato per minimum fax.
Qui una sua intervista.
* * *
Silenziosamente sono scesa a patti
col territorio del mio vivere
ho una cantina piena di barattoli
un sottoscala di odori riconoscibili
-mi assicuro la sopravvivenza
in tutte le guerre che non verranno mai.
Sono padrona delle mie scelte
sono padrona di non perdonarmi
per essere padrona di quello che ho fatto.
Gli ultimi tentativi erano cambiali
di attaccamento al mondo
fattori elementari di alterazione:
siringhe, baionette conficcate nei polpacci
-non crediate che non mi sia divertita
il fatto è che non pativo abbastanza.
Meglio un diploma in uso didascalico
convincimenti e fedi controllate,
le subordinate producono vertigine
depenno tutti gli aggettivi grossolani
spedisco lettere di protesta burocratica
poi attendo che qualcuno risponda
e mi chieda di smettere.
*
Ero simpatizzante del comunismo
fino a un minuto fa - prima che il telefono
mi portasse in ascolto della tua voce –
ho risposte così logiche da sentirmi perdente.
Dopo tutte quelle bombe Dresda,
il Padre e il Figlio sono ancora in piedi
mentre io abbatto la mia ombra
nemica giurata dell’ultima notte.
Ho scambiato lo spazio utopico
per le fede in un compagno di letto.
Sono una benpensante
amo la tenerezza delle pari opportunità,
il mio benessere peggiora con costanza
occorre attaccare manifesti nuovi
il sollievo arriverà lento e sotterraneo:
parlerò solo di emicranie annoiate
o di crampi allo stomaco per la fame.
Voglio morire contenta
una morte ordinata e intelligente
non posso campare d’aria
perché non mi verrà mai sottratta;
quando provai la via dell’ascetismo
fui costretta a pentirmi in tempo
mi dissero che non era saggio
allontanarsi dalla comunione civile.
L’aria era troppo rarefatta
e i polmoni tumorati non si abituavano.
*
Ci separa un’assemblea di partito
la cinta daziaria dell’inverno cosacco
mi diverte la noia, la caduta libera
di lacrime fino controllo della lingua
osservo con coscienza il mio pianto,
non è il bruciore di lacrimogeni in piazza
ma il dolore chimico dell’illuminismo
la contaminazione coercitiva
che irradia legge di progresso.
Ho pagato il compagno morto al mio posto
la lotta armata gli rubava il pane dai denti
sua moglie mi ringrazia ancora con garbo
ogni primavera si dà sposa al Signore.
Poi, di colpo, dimentico di aspettare
- quando il telefono squilla
perdo le dimensioni della mia attesa.
Non siamo invidiosi del nostro disagio
non è irrimediabile, solo guastato
muore secondo abitudine.
Perché non mi lasci da sola
a combattere contro questi muri bassi,
talmente sottili che la carta s’increspa
ad ogni colpo affondato e respinto?
La svista dei ricordi reclama altri gesti
infecondi come tranquillanti scaduti
eppure una volta ignorato lo sgomento
le intenzioni diventano ordinarie.
domenica 21 giugno 2009
ho ritrovato un amico
Finora su questo blog non avevo mai parlato di Tex, se non come allusione in un post che parlava di tutt'altro.
Non so neanch'io bene perché: in fondo Tex è una parte non piccola della mia vita, dato che lo leggo da quando avevo otto anni. Il primo me lo comperò mia nonna, una domenica di marzo che festeggiavamo il mio compleanno, e mio padre mi ha sempre detto che aveva anche lui una collezione, in parte dispersa, in parte distrutta da me quando non ero ancora in età di intendere e di volere.
Non so, dicevo, perché non ne ho mai parlato. Due ipotesi: la prima, che recensire un fumetto seriale mi sembrava un impegno troppo vincolante; la seconda, che effettivamente negli ultimi anni Tex non aveva più nella mia vita il ruolo centrale che occupava una volta.
Una volta, tanto per intendersi, aspettavo l'uscita dell'albo mensile, me lo leggevo e rileggevo, giravo i mercatini dell'usato per recuperare i vecchi numeri. Questo fino ai quindici-sedici anni. Poi ho cominciato ad allargare i miei orizzonti fumettistici, a leggere Pratt, Pazienza, e tanti altri; poi sono andato all'università, mi sono trasferito a Perugia mentre i fumetti sono rimasti a casa giù in Puglia, e mi hanno catturato interessi diversi; poi, effettivamente, Tex ha cominciato un lungo periodo di declino, diciamo da metà anni Novanta fino a non molto tempo fa (le ragioni di questo declino le so, ma non le dico: a buon intenditor...).
Il mio risveglio di interesse per Tex data agli ultimi due o tre anni. Prima di tutto ho scoperto un bellissimo forum di appassionati (anzi, due), dove scrive gente molto esperta e competente, con anticipazioni, retroscena, informazioni di ogni tipo. E negli ultimi anni Tex ha conosciuto i primi indizi di una seconda giovinezza, con un notevole ricambio nello staff di autori e disegnatori e l'uscita di molte storie di gran valore, alcune paragonabili a quelle dei bei vecchi tempi, il cosiddetto “periodo d'oro” (ossia quei dieci-quindici anni, da metà anni Sessanta a fine anni Settanta, in cui uscirono le più belle storie del Ranger, quelle che vanno più o meno dal numero 100 al numero 200).
Devo dire che non tutti hanno gradito questo ricambio, anzi molti tradizionalisti hanno lamentato uno snaturamento del personaggio, un eccessivo numero di storie poco “canoniche”, e così via. Ma io che posso farci: dopo dieci anni e più di storie che leggevo e dimenticavo subito, di albi comprati solo per dovere (andiamo, come si fa a non comprare Tex), ho davvero riscoperto il piacere di andare in edicola e chiedere se è uscito il nuovo numero.
Forse sarà poco, anzi in effetti è poco, in fondo è solo un fumetto, storie d'avventura nel vecchio West, 114 pagine di disegni e nuvolette puntualmente in edicola ogni mese, ma per me ritrovare la passione per Tex è stato come ritrovare un vecchio amico.
Se mi sono infine deciso a scrivere di Tex, però, è stato perché questo mese è uscito l'albo che, a mio avviso, sigilla la vera rinascita texiana.
Si tratta di un Texone (ossia di un albo in formato maxi, un numero speciale che esce una volta all'anno, fin dal 1988) intitolato “Patagonia”.
E, lo dico subito, l'albo è senza mezzi termini un capolavoro.
Le ragioni che ne fanno un evento eccezionale sono parecchie.
La sceneggiatura è di Mauro Boselli, e questo di per sé non è eccezionale dato che da qualche anno Boselli è diventato ufficialmente l'autore principale di Tex, subentrando a Claudio Nizzi, il quale a sua volta nei primi anni Ottanta aveva raccolto l'eredità di Giovanni Luigi Bonelli, l'uomo che nel 1948 aveva creato il personaggio e che per quasi quarant'anni ne era stato l'autore unico (o quasi). Eccezionale è il fatto che questa storia si pone, senza alcun dubbio, tra le più belle mai scritte da Boselli. E non è poco, trattandosi di un autore che è riconosciuto unanimemente tra i migliori del nostro panorama nazionale.
I disegni sono di una new entry texiana, Pasquale Frisenda. Un disegnatore a suo agio con il West, dato che aveva già disegnato Ken Parker e Magico Vento, e chi ha un po' di confidenza con il fumetto popolare italiano sa di che cosa parlo. Con questo Texone, Frisenda firma quella che, secondo me, è finora la sua opera migliore. Una prova praticamente perfetta, un amore per i dettagli, una capacità di rendere le atmosfere e le psicologie dei personaggi, il tutto esaltato dal grande formato delle pagine... Insomma, da applauso.
Il soggetto è stato ideato da Guido Nolitta, nom de plume di Sergio Bonelli, figlio di Gian Luigi e a sua volta sceneggiatore di fumetti (ha creato Zagor e Mister No), nonché editore di Tex e comandante in capo della Sergio Bonelli Editore, una vera e propria corazzata del fumetto italiano, che produce le storie di Tex, Zagor, Martin Mystère, Nathan Never, Dylan Dog, Magico Vento e di parecchie altre serie presenti e passate. Nolitta si era già cimentato in passato con Tex, e aveva dato del personaggio un'interpretazione parzialmente eterodossa, che certi lettori detestano ma che io ho sempre trovato molto suggestiva. Qui contribuisce, con un'idea originale, alla più bella storia di Tex degli ultimi vent'anni.
Quanto alla storia, lo spunto iniziale vede Tex ricevere la visita di un ambasciatore del governo argentino.
In Argentina è in corso la “conquista del desierto”, ossia la lenta penetrazione dei bianchi nelle pampas, che nel corso del XIX secolo schiacciò le tribù di indios fino ad allora liberi e indipendenti, in quello che si può definire tout-court un genocidio, con modalità ed entità paragonabili a quello, più o meno contemporaneo, subito dai pellerossa negli Stati Uniti.
Ora un vecchio amico di Tex, attualmente ufficiale dell'esercito argentino, ha bisogno del suo aiuto, perché il Governo sta progettando un tentativo di soluzione diplomatica del problema. Ricardo Mendoza, questo il nome dell'amico, gli chiede di andare in Argentina, di guidare un battaglione di gauchos nella pampa e di parlamentare con gli indios (Tex, per chi non lo sapesse, è non solo un ranger, ma anche il capo di una tribù di indiani Navajos, e ha sempre avuto una caratteristica fondamentale: la capacità di stare dalla parte del giusto, dovunque esso sia, senza distinzioni di razza, colore ed etnia; ha spesso difeso gli indiani contro i soprusi dell'esercito statunitense, e questo in storie degli anni Cinquanta, ben prima del western “revisionista”, prima di “Soldato Blu”, “Piccolo Grande Uomo”, “Un uomo chiamato Cavallo” e “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, in tempi in cui al cinema gli indiani erano solo i selvaggi cattivi da ammazzare senza troppi scrupoli).
Tex accetta e si imbarca per Buenos Aires. Per inciso, è una delle sue rare sortite al di fuori dei classici panorami western. La missione sembra, in un primo momento, avere successo: gli indios ribelli vengono ricondotti a più miti consigli. Ma interviene un voltafaccia: al pacifista presidente Alsina subentra il guerrafondaio Julio Roca, e il governo argentino cambia politica. D'ora in poi la guerra dovrà avere come scopo principale lo sterminio e la sottomissione di tutti gli indios, senza distinzione tra “pacifici” e “ribelli”.
Tex dovrà scegliere da che parte stare, e lo farà, anche a rischio della vita.
Se amate Tex, leggete questo Texone.
Se amavate Tex e poi l'avete abbandonato (come stavo per fare io), leggetelo.
Se non avete mai letto Tex, leggetelo.
Ho detto.
sabato 20 giugno 2009
SIM Pio?
memorandum
Cerchiamo, dicevo, un posto per la buona stagione
perché non si sa mai da dove osserveremo la prossima
è troppo poco lo spazio tra l’osso e l’erba
così facile amare quando la carne è carne
in fondo siamo passati tutti per le stesse strade
fermandoci molto prima del non-ritorno.
E poi si sa che la primavera incide il cielo fra i tetti
difficile è farsi trovare pronti
non c’è inverno che tenga non c’è pensiero che duri più di un abbraccio
sei così bella che non ho più voglia di sognare.
venerdì 19 giugno 2009
body language
Si consiglia di osservare attentamente da 4'33" a 6'18". Quel minuto e mezzo di primo piano delle sue mani che suonano dice sulla sua musica molto più che una decina di saggi musicologici.
Thelonious Monk Quartet Live in Oslo, 1966.
Thelonious Monk - pianoforte; Charlie Rouse - sax tenore; Larry Gales - contrabbasso; Ben Riley - batteria.
giovedì 18 giugno 2009
somewhere before
A me sì: quando ascolto musica medievale o rinascimentale.
Perché non posso spiegarmi in altro modo il fatto che questa cosa qui mi spedisca in uno stato che sta tra l'estasi mistica e la trance sciamanica:
La spiegazione è una sola: io c'ero.
Così come sono sicuro di averla cantata io stesso, questa, e chissà, magari anche composta:
E questa? E' mia, non ci sono dubbi:
E se in Paradiso fanno musica, di sicuro fanno questa:
mercoledì 17 giugno 2009
i racconti dell'età del jazz 6 - "Ho visto Nina"
Lo confesso: Nina Simone mi era sempre sfuggita.
Neanch’io saprei spiegarmi il perché, anzi è piuttosto strano, dato che adoro le voci femminili scure, profonde, amo Sarah Vaughan e Cassandra Wilson, Carmen McRae e Abbey Lincoln. Forse sarà per l’imprendibilità di Nina, per il suo porsi a cavallo di tutti i generi (voi come la classifichereste? jazz? pop? soul? gospel? o, volendo, folk? o, perché no, musica classica, dato che da ragazza aveva studiato a lungo Bach, Mozart e Rachmaninov?), senza mai cavalcarne davvero nessuno...
martedì 16 giugno 2009
recensioni in pillole 18: "Crolli"
Di questo libro non ricordavo niente: né quando lo avevo comprato, né dove, né perché. È strano, dato che in genere dei miei libri conservo una mappa mentale precisa come uno schedario. In realtà avevo allungato la mano sullo scaffale per prendere un altro libro, sempre di Belpoliti, che era accanto a questo, poi l'ho visto, mi ha incuriosito e ho deciso di leggerlo.
Il testo prende inizio dalla constatazione che gli anni Novanta sono stati aperti e chiusi da due crolli speculari e simmetrici: nel 1989 quello del Muro di Berlino, nel 2001 quello delle Twin Towers. Il primo è stato “un evento gioioso e collettivo, una grande festa, un happening durato parecchi giorni [...] che l'Europa, l'intero mondo, hanno salutato come l'inizio di una nuova epoca”; il secondo “è invece un evento angoscioso, tragico, carico di valenze simboliche”. Il primo indica l'apertura di uno spazio di dialogo e speranza, il secondo la sua chiusura.
Partendo da qui, Belpoliti segue il tema delle macerie, delle rovine, rintracciandolo nell'arte e nella cultura della seconda metà del Novecento: i ventitré densi paragrafi che compongono il libro attraversano soprattutto la letteratura e le arti visive, ma non mancano riferimenti al cinema, al fumetto, alla filosofia.
Passano così in rassegna le macerie delle città tedesche distutte dai bombardamenti; i film catastrofici; i saggi di Susan Sontag, Hermann Broch e Milan Kundera sul kitsch (uno dei temi centrali del libro: il kitsch come nemico dell'arte o come ultima frontiera dell'arte stessa, che riutilizza le macerie della cultura crollata); le opere di Man Ray, Andy Warhol, Matthew Barney e Maurizio Cattelan; i tentativi degli scrittori americani di raccontare l'11 settembre; le riflessioni di filosofi e antropologi sulla cultura del secolo appena trascorso; gli edifici vuoti di Pripjat', la città evacuata dopo la catastrofe di Chernobyl; le pagine di Walter Benjamin sulla Berlino anteguerra; fino al crollo estremo, abissale: lo sterminio degli ebrei, che ha lasciato un vuoto morale e culturale proprio al centro del Novecento.
Alla fine, la conclusione di Belpoliti è che la nostra non è l'età dell'apocalisse, del “tempo ultimo”, ma piuttosto quella del “tempo penultimo”, del tempo che precede sempre una fine che non arriva mai. L'età dei piccoli crolli, dell'equilibrio instabile, dell'incertezza che non trova mai un punto di assestamento.
lunedì 15 giugno 2009
pinguini, pifferi e tenori
Muti riflette sulla situazione (disastrosa) della didattica musicale in Italia, sui teatri chiusi, sull'insegnamento della musica nelle scuole ridotta al dar fiato a infami pifferi, su quel 99% di italiani che non hanno mai messo piede a un concerto di musica classica, e lo fa con lucidità e spregiudicatezza, indicando quelle che sono, anche a mio avviso, le vere cause di questo tsunami culturale: non solo la politica miope dei governi, di Destra come di Sinistra, ma anche - se non soprattutto - la sclerotizzazione della stessa musica classica, ormai ridotta a ripetere rituali vuoti, puri gusci senza sostanza, o peggio ancora ad inseguire il pop più deteriore e televisivo.
Mi limito a riportare un aneddoto personale: qualche anno fa, nel liceo dove insegnavo, un gruppo di ragazzi aveva messo su un bel laboratorio musicale pomeridiano. Si erano allestiti, da soli, una sala prove con tanto di strumenti, mixer, amplificatori (c'era uno di loro che era una specie di mago della tecnologia) e si ritrovavano a suonare rock e blues, cover di Eric Clapton e dei Police. Insomma, bella roba.
La disgrazia è che a sovrintendere era stata messa una collega di musica che un giorno mi disse, parole testuali: "Quello che fanno non ha nessun valore musicale. Al massimo può essere un'esperienza di socializzazione, ma nient'altro".
Ecco, mettere una persona del genere a insegnare musica è il modo più sicuro per ammazzare nei ragazzi qualunque passione per la musica classica. E quindi per privarli di un'occasione irripetibile di crescita umana, culturale e spirituale.
Qualche passo dall'intervista a Muti:
Guardi, la stupirò: per amare la musica non è necessario saperla suonare. Forse che riesce a godere Shakespeare solo chi scrive tragedie? Credo che la didattica di base della musica, negli ultimi decenni, sia stata volonterosa ma fondamentalmente sbagliata. Diciamo la verità: certi infami pifferi messi a forza tra i denti degli scolari, con quegli strazianti miagolii che si sentono a volte uscire dalle finestre delle scuole, finiscono per farla odiare, la musica, a un ragazzino. Non credo neppure che sia necessario insegnare a leggere lo spartito, un esercizio tecnico dispendioso e inutile per chi poi non farà il musicista di professione.
Allora, che fare?
Le racconto cosa faccio io. A Lugo c'è un bel teatro, il Rossini. Ci sono andato con la Cherubini per le prove della Jupiter di Mozart. Sinfonia difficilissima, inizia catturandoti con dolci lusinghe e termina nella metafisica più pura. Ho scelto di fare qualche ora di prove aperte, invitando tutto il paese. Parlavo, spiegavo, facevo esempi. Alla fine c'è stata un'ovazione di gratitudine sincera: di chi improvvisamente ha scavalcato un muro ed è arrivato a cogliere il piacere della musica.
[...]
I ragazzi che girano per strada con gli auricolari spesso ascoltano cose molto complesse. Non è la presunta "difficoltà" della musica colta a tenerli fuori dai teatri. Molte volte è una ritualità che non s'è mai rinnovata. Quanto vorrei che finissero certe liturgie, l'applauso, gli abiti scuri, l'ingresso sul palco dei "pinguini" col capo pinguino... Sogno concerti dove i musicisti, vestiti come i loro ascoltatori, spiegano e condividono ciò che stanno per fare, un concerto senza sacerdoti separati dai fedeli, un concerto dove tutti siano concelebranti...
Il Concilio Vaticano II della musica...
Ma con rigore, rispetto, e sforzo: perché ascoltare musica non è udire un sottofondo, è affrontare un viaggio intellettuale ed emotivo.
Che cosa pensa delle «contaminazioni» tra rock e classica? Avvicinano i ragazzi?
Allontanano. Ho sentito, mi pare al Festival di Sanremo, un'orchestra classica suonare Mozart assieme a un gruppo pop, ma di quel brano è rimasta solo una pallida superficie di note che può andar bene per uno spot televisivo. Una sinfonia non è una linea melodica, è un'architettura dove tutto dipende da tutto, togli un mattone e crolla.
La lirica negli stadi?
Non so se i Tre tenori e cose simili abbiano allargato il pubblico della musica, ma non credo l'abbiano comunicata. Quei recital sono condensati di arie celebri, una dopo l'altra, come cioccolatini; strappano applausi, ma un pranzo fatto solo di dessert finisce per disgustare. Un'opera è un apparato complesso, fatto di densità diverse, l'aria esplode al momento giusto, non la puoi strappare come un fiore dall'albero.
domenica 14 giugno 2009
amore e tempo - 4
(clicca sul titolo per ascoltare la canzone)
Quando carica d'anni e di castità
tra i ricordi e le illusioni
del bel tempo che non ritornerà,
troverai le mie canzoni,
nel sentirle ti meraviglierai
che qualcuno abbia lodato
le bellezze che allor più non avrai
e che avesti nel tempo passato.
Ma non ti servirà il ricordo,
non ti servirà
che per piangere il tuo rifiuto
del mio amore che non tornerà.
Ma non ti servirà più a niente,
non ti servirà
che per piangere sui tuoi occhi
che nessuno più canterà.
Vola il tempo lo sai che vola e va,
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo
e per questo ti dico amore, amor
io t'attenderò ogni sera,
ma tu vieni non aspettare ancor,
vieni adesso finché è primavera.
sabato 13 giugno 2009
amore e tempo - 3
W. B. Yeats, "When You Are Old..."
When you are old and gray and full of sleep
And nodding by the fire, take down this book,
And slowly read, and dream of the soft look
Your eyes had once, and of their shadows deep;
How many loved your moments of glad grace,
And loved your beauty with love false or true;
But one man loved the pilgrim soul in you,
And loved the sorrows of your changing face.
And bending down beside the glowing bars,
Murmur, a little sadly, how love fled
And paced upon the mountains overhead,
And hid his face amid a crowd of stars.
* * *
(traduzione di Eugenio Montale)
Quando tu sarai vecchia, tentennante
tra fuoco e veglia prendi questo libro,
leggilo senza fretta e sogna la dolcezza
dei tuoi occhi d'un tempo e le loro ombre.
Quanti hanno amato la tua dolce grazia
di allora e la bellezza di un vero o falso amore.
Ma uno solo ha amato l'anima tua pellegrina
e la tortura del tuo trascolorante volto.
Curvati dunque su questa tua griglia di brace
e di' a te stessa a bassa voce Amore
ecco come tu fuggi alto sulle montagne
e nascondi il tuo pianto in uno sciame di stelle.
venerdì 12 giugno 2009
amore e tempo - 2
Ronsard, "Les Amours d'Helène" (1578)
Quand tu seras bien vieille, au soir, à la chandelle,
assise au près du feu, devidant et filant,
direz, chantants mes vers, en vous emerveillant:
"Ronsard me célebrait du temps que j'etais belle!".
Lors vous n'aurez servante oyant telle nouvelle,
dejà sous le labeur à dem sommeillant,
qui au bruit de mon nom ne s'aillent reveillant,
benissant votre nom de louange immortel.
Je seras sous la terre, et, fantôme sans os,
par les ombres myrteux, je prendrai mon repos;
vous serez au foyer une vieille accroupie,
regrettant mon amour et votre fier dedain.
Vivez, si m'en croyez, n'atendez à demain;
cueillez dès aujourd'hui les roses de la vie.
* * *
Quando sarai invecchiata, la sera, alla candela,
seduta accanto al fuoco a dipanare e filare,
cantando i miei versi, dirai con meraviglia:
“Ronsard mi celebrava, nel tempo in cui ero bella!”.
Allora non avrai serva che all'udire questa notizia,
già mezza addormentata dopo la fatica,
al suono del mio nome non si risvegli dal sonno,
benedicendo il tuo nome con lodi immortali.
Io sarò sottoterra, spirito senza ossa,
e fra le ombre dei mirti prenderò il mio riposo:
tu sarai al focolare, una vegliarda attrappita,
che rimpiange il mio amore e il tuo fiero disdegno.
Vivi, prestami ascolto, non attendere il domani;
cogli fin da subito le rose della vita.
giovedì 11 giugno 2009
amore e tempo - 1
Orazio, Odi, I, 25
Parcius iunctas quatiunt fenestras
iactibus crebris iuvenes protervi,
nec tibi somnos adimunt, amatque
ianua limen,
quae prius multum facilis movebat
cardines. Audis minus et minus iam:
‘Me tuo longas pereunte noctes,
Lydia, dormis?’.
Invicem moechos anus arrogantis
flebis in solo levis angiportu,
Thracio bacchante magis sub inter-
lunia vento,
cum tibi flagrans amor et libido,
quae solet matres furiare equorum,
saeviet circa iecur ulcerosum,
non sine questu,
laeta quod pubes hedera virenti
gaudeat pulla magis atque myrto,
aridas frondes hiemis sodali
dedicet Euro.
* * *
Sempre più rari alle finestre chiuse
battono colpi i giovani sfrontati,
non ti rubano più il sonno, e resta ferma
sulla soglia la porta
che prima così spesso si muoveva
sui cardini. Ormai non senti quasi più:
“Io che son tuo consumo lunghe notti,
Lidia, e tu dormi?”.
Sarai tu a supplicare un adultero arrogante,
vecchia e disprezzata, in un vicolo solitario,
mentre il vento di Tracia impazza nelle notti
di luna nuova
e l'amore e la foia ti bruceranno
come infuriano le madri dei cavalli
e ti morderanno il fegato piagato
e piangerai
perché la lieta gioventù ama l'edera
verde e lo scuro mirto
e abbandona al vento invernale
le fronde inaridite.
mercoledì 10 giugno 2009
massimo godimento
Sono 40 minuti di grande musica.
Godeteveli.
Duke Ellington Orchestra
La Bussola, Focette (near Viareggio), Italy
July 20 1970
Personnel:
Cat Anderson, Cootie Williams, Mercer Ellington, Fred Stone, Nelson Williams: trumpets;
Chuck Connors, Malcom Taylor, Booty Wood: trombones;
Russell Procope: alto sax, clarinet;
Norris Turney: tenor sax, flute;
Harold Hashby, Paul Gonsalves: tenor sax;
Harry Carney: baritone sax, bass clarinet, flute;
Duke Ellington: piano;
Wild Bill Davis: organ;
Victor Gaskin: bass;
Rufus Jones: drums
01. Take the A Train
02. Kinda Dukish / Rockin' in Rhythm
03.-07. New Orleans Suite (Second Line / Bourbon Street / Aristocracy à La Jean Lafitte / Thanks for the Beautiful Land of the Delta / Portrait of Louis Armstrong)
08. Medley: Prelude to a Kiss/Do Nothing 'Til You Hear From Me/Don't Get Around Much Anymore/Mood Indigo/Caravan
09. The Birth of the Blues
Total time: 40.40 min
martedì 9 giugno 2009
auguri!
Compie 75 anni uno dei grandi personaggi del Novecento. E non sono affatto ironico.
Donald Fauntleroy Duck, per noi italiani Paolino Paperino, comparve per la prima volta sugli schermi il 9 giugno 1934 nel cortometraggio "The Wise Little Hen" (La gallinella saggia).
Da allora Donald si è incazzato, ha preso innumerevoli batoste sulla testa, ha fatto il prepotente con i nipotini, è stato perseguitato dal cinico zio, si è travestito da Paperinik, ha combattuto contro la scalogna sua e contro la fortuna di Gastone, ha sperato inutilmente che Paperina gliela desse, è stato protagonista, grazie a Carl Barks, di alcune delle più belle storie d'avventura del Ventesimo Secolo, è uscito indenne dai più immani disastri. E non ha mai lavorato, se non quando era strettamente indispensabile.
Paperino è tutti noi: quel che temiamo di essere e quel che, in fondo, sappiamo di essere.
recensioni in pillole 17: "Don Chisciotte"
Ci sono delle volte che ringrazio il cielo di non aver fatto il critico letterario (ho/avete corso questo rischio, sappiatelo).
Qualcuno ha detto che quando un hobby diventa il tuo lavoro, hai perso un hobby: e io l'ho visto con il jazz. Invece, non facendo il critico letterario, posso leggere quello che mi pare e scriverne come mi pare.
Altrimenti, sai che imbarazzo a recensire il Don Chisciotte. Roba da far ridere i polli.
Io invece posso scrivere, in ordine puramente casuale:
- che è uno dei romanzi più divertenti letti in vita mia;
- che dice già tutto quel che c'è da dire sulla commistione di generi, sui giochi metaletterari, sulla compresenza di sublime e ridicolo, eccetera eccetera, e lo fa molto meglio (leggi: in maniera molto più piacevole) di tanti autori "postmoderni";
- che Don Chisciotte io lo vedo come una specie di iper-lettore: uno che eleva al quadrato la "sospensione dell'incredulità" e la applica non solo ai libri, ma anche alla vita; in pratica, uno che ha il coraggio di fare quel che tutti noi bibliomani vorremmo fare senza riuscirci: vivere in un libro; perché secondo me Don Chisciotte sa benissimo di aver reso reali le fantasie con la pura forza di volontà, e non è affatto pazzo;
- che i personaggi non hanno spessore, vivono nelle loro beate due dimensioni, e questo mi conforta nella mia vecchia convinzione che in letteratura la psicologia sia un fardello inutile e, spesso, dannoso. Ceci n'est pas un homme, il est un personnage.
lunedì 8 giugno 2009
domenica 7 giugno 2009
parliamo un po' di jazz
E così, ad esempio, ClustrMaps mi informa dei progressi nella colonizzazione dell'orbe terracqueo (sono messo bene in Europa e in America, sia del Nord sia del Sud, e persino in l'Australia; mi devo impegnare di più con l'Africa e con l'Asia Centrale; curioso, invece, il vuoto in Canada); Shiny Stat mi dà le statistiche delle visite e delle pagine viste (pare che il picco si raggiunga dopo pranzo e dopo cena); eXTReMe Tracking mi permette ricerche incrociate sulla provenienza geografica, il reindirizzamento da altri siti e le keywords di Google che hanno condotto qui i visitatori.
A questo proposito, oltre a una certa quantità di persone che cercavano “belle époque” (che ho trattato solo di straforo) o “poesie Orazio” o “Italo Calvino” (presumibilmente, studenti liceali a caccia di traduzioni già pronte o di tesine prefabbricate) o “poesie della lontananza” (titolo di un post di qualche mese fa), e oltre a quelle interessate a poesie come quella di Soyinka (molto ricercata, a quanto pare) o di Ted Hughes o di Davide Rondoni, mi colpiva la quantità di gente arrivata qui cercando “jazz” o “Umbria Jazz” o roba del genere.
Mi colpiva perché, nonostante quello che avrei pensato all'inizio, mi accorgo di aver parlato poco di jazz, o perlomeno di non averne parlato quanto mi sarei aspettato di fare.
Sarà forse perché il jazz non occupa più nella mia vita il posto centrale che poteva occupare 5 o 10 anni fa (in realtà questo varrebbe anche per molte altre cose, ma sarebbe un discorso lungo), nonostante io lo tratti ormai in maniera professionale – o chissà, forse proprio per questo.
Ma insomma, mettiamo il punto a questo lungo prologo e veniamo al sodo. Parliamo un po' di jazz.
E ne parliamo attraverso un disco che non è il più bello sentito ultimamente, che probabilmente non è nemmeno un capolavoro, ma che è uno di quelli che negli ultimi tempi mi hanno più fatto riflettere.
Si tratta di un disco di Avishai Cohen, intitolato “Aurora”.
L'ho ricevuto dal giornale perché dovevo intervistare Cohen (per chi fosse interessato, l'intervista uscirà fra circa un mese, su “Jazzit” di luglio-agosto, insieme alla recensione del disco). Ma innanzi tutto sarà il caso di spendere due parole sul musicista.
Avishai Cohen è un contrabbassista di origine israeliana (attenzione: c'è un altro jazzista di nome Avishai Cohen, sempre israeliano ma trombettista, che non c'entra niente con questo), ha 39 anni e negli ultimi 10-15 anni si è fatto un nome sulla scena newyorkese. Ha esordito a metà anni Novanta in band di latin jazz, poi è entrato nei gruppi di Chick Corea che lo ha lanciato sui palcoscenici di mezzo mondo, ha collaborato con un mare di gente (Alicia Keys, Bobby McFerrin, Herbie Hancock, Omara Portuondo, Roy Hargrove, eccetera eccetera), ha inciso una decina di dischi a suo nome e ha persino fondato una sua etichetta discografica, la RazDaz.
L'avevo sentito dal vivo a Umbria Jazz sette o otto anni fa, e a dire il vero non mi era piaciuto granché: era un virtuoso, niente da dire, aveva una tecnica strabiliante sia sul contrabbasso sia sul basso elettrico, suonava anche il piano, però nella sua musica c'era un elemento esibizionistico, un “guardate quanto sono bravo”, che mi aveva dato molto fastidio. Per di più, i suoi brani erano tutti inesorabilmente uguali: tutti costruiti su ostinati, ossessivi vamp ritmico-armonici, sui quali si sovrapponevano melodie orientaleggianti; tutti suonati a tutta forza, a tutto volume, a tutta velocità. Insomma, interessante il primo brano, così così il secondo, dal terzo in poi una palla mostruosa.
Ora Cohen esce con questo disco per la Blue Note francese. Nel frattempo è tornato a vivere in Israele e ha sviluppato il nuovo interesse: il canto. Sì, perché sulla maggior parte dei brani di questo disco canta, oltre a suonare contrabbasso o basso elettrico o pianoforte.
Ma, soprattutto, ho trovato un musicista molto diverso da quello che ricordavo. I vamp orientaleggianti ci sono ancora, ma la musica è molto più varia, e soprattutto priva di quegli elementi così insistentemente virtuosistici che mi avevano dato fastidio, anzi le atmosfere sono perlopiù quiete, quasi liriche. L'aroma mediorientale si è fatto più preciso e fragrante, e i brani hanno assunto un andamento aperto, disteso, a volte persino pop.
C'è persino il recupero di temi tout-court folk, ad esempio un paio di canzoni sono in ladino (che non è quello delle valli friulane, ma il cosiddetto "judezmo" o "giudeo-spagnolo", ossia una lingua basata sull'antico spagnolo misto con termini ebraici, che gli ebrei portarono in Nord Africa, Medio Oriente e nei Balcani dopo essere stati scacciati dalla Spagna nel 1492, al termine della Reconquista). Ho già parlato qui di uno di questi brani.
La voce di Cohen, beh, non è proprio uno spettacolo, ma è a suo modo affascinante.
Insomma, un disco molto gradevole, e secondo me anche abbastanza originale. Poco “jazz”, se vogliamo, ma questo per me non è un problema, almeno negli ultimi tempi.
Ecco, proprio questo è l'aspetto che più mi ha fatto riflettere. Negli ultimi tempi, molte delle cose più interessanti che ho sentito non sono “jazz”, nel senso che non sono cose che un purista (come ero io fino ai 20-25 anni) classificherebbe come tali.
Sono cose che stanno un po' ai margini, alla periferia, all'incrocio con altre musiche.
Secondo me è sintomatico.
PS: per i curiosi, su YouTube ci sono disponibili per l'ascolto quasi tutti i brani. Questi sono i relativi link:
Morenika / Interlude in C# Minor / El Hatzipor / Leolam / Winter Song / It's Been So Long / Alon Basela / Still / Shir Preda / Aurora / Alfonsina Y El Mar / Noches Noches-La Luz
sabato 6 giugno 2009
la vendetta di priapo
D'accordo, il senso dell'umorismo dei Romani era un po' diverso dal nostro, e ciò che li faceva ridere a noi sembra una comicità un tantino grassoccia.
Però io questa la adoro.
(Tanto per informazione, Canidia era probabilmente una fattucchiera napoletana e il suo vero nome pare fosse Gratidia; compare anche in due Epodi, il V e il XVII).
Satire, I, VIII
Una volta ero un tronco di fico, legno inutile,
quando il falegname, incerto se fare uno sgabello o un Priapo,
preferì il dio. E da allora sono un dio, gran terrore
di uccelli e ladri: i ladri li tengono a bada la mia destra
e il palo rosso che mi sporge dall'inguine osceno,
gli uccelli importuni li spaventa la canna piantata
sulla mia testa, e impedisce che si fermino nei nuovi giardini.
Qui prima gli schiavi portavano i cadaveri dei compagni, scacciati
dalle tombe anguste, e li ponevano in misere casse,
questa era la fossa comune della plebe più povera,
del buffone Pantolabo e di Nomentano scialacquatore;
un cippo prescriveva al cimitero mille piedi in larghezza,
trecento in lunghezza, e agli eredi non spettavano diritti sulla tomba.
Ora si può frequentare il salubre Esquilino, passeggiare
nella campagna soleggiata, dove prima si offriva lo spettacolo
triste di un campo incolto di ossa bianche.
Ma chi mi dà noia e mi affatica non sono tanto i ladri
o le bestie che infestano questo luogo,
ma quelle donne che rivoltano con filtri e incantesimi
l'animo umano: non ho modo di scacciarle,
né di impedire che, appena la luna vagante mostra il bel volto,
vengano in cerca di ossa e di erbe malefiche.
Io stesso ho visto Canidia aggirarsi, vestita
di un nero mantello, a piedi nudi, scarmigliata,
con Sàgana Maggiore che urlava: entrambe il pallore
faceva orrende a vedersi. Con le unghie scavarono
la terra, e sbranarono a morsi un'agnella scura,
sparsero il sangue nella fossa, per trarne
le ombre dei morti e ricevere responsi.
C'era un fantoccio di lana e un altro di cera: il più grande
era quello di lana, che ricevette meno tormenti,
ma quello di cera era in atto servile, come di chi
sta per morire. Una invoca Ecate, l'altra
la crudele Tisifone: avresti visto vagare
serpenti e cani infernali, e la luna celare il volto rosso
dietro i grandi sepolcri, per non assistere allo sconcio,
e se mento, i corvi mi imbrattino la testa
di merda bianca, e su di me vengano a pisciare e cacare
il sozzo Giulio, la molle Pediatia e Vorano il ladro.
Perché ricordare tutto? Come prima tristi poi acute
risuonarono le voci delle ombre che parlavano con Sàgana,
e come seppellirono una barba di lupo e un dente di serpe screziata
di nascosto nella terra, e come l'immagine di cera
bruciò di fiamme più grandi, e come non volli assistere
senza vendetta alle parole e agli atti delle due Furie?
E così, come una vescica che scoppia schiacciata, scorreggiai
con le mie natiche di fico, e le feci scappare fino in città.
A Canidia i denti, a Sàgana l'alta parrucca
caddero, e le erbe, e i lacci incantati.
venerdì 5 giugno 2009
scusate lo sfogo
Non me ne frega niente degli aerei, pubblici e privati che siano.
Non me ne frega niente del culo di Noemi, del ragazzo di Noemi, della famiglia di Noemi e delle feste di compleanno di Noemi.
Non me ne frega niente del divorzio di Berlusconi.
Non me ne frega niente se gli ospiti di Villa Certosa prendono il sole nudi.
Non me ne frega niente di chi farà il presidente del Veneto.
Non me ne frega niente dello sciopero della fame di Pannella.
Vorrei dei programmi. Vorrei sapere che cosa pensano di fare: nel concreto. Vorrei del realismo.
Vorrei una Sinistra che fa la Sinistra.
Chiedo troppo?
in lista
Questo, per esempio, trovato su vibrisse, il sito di Giulio Mozzi:
È possibile che nel 1929 un gruppo di scrittori italiani capitanati da Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo, abbia scritto un romanzo d’avventura, pieno di colpi di scena, ambientato tra Pechino, Costantinopoli, Parigi, Roma ecc., nel quale si immagina che Nicola II, l’ultimo zar, non sia morto nell’eccidio di Ekaterinenburg, ma scampato alla furia omicida bolscevica si sia rifugiato in Manciuria diventando quindi oggetto di una formidabile caccia all’uomo con la partecipazione di tutti i servizi segreti (russi, cinesi, italiani, inglesi ecc.)? Ed è possibile che questo «grande romanzo di avventure», come recita il sottotitolo, sia anche un libro di avvincente lettura, di deliziosa fattura e di insospettabile ironia? Ed è ancora possibile che di Lo Zar non è morto, questo il titolo del libro, nessuno sappia nulla, neppure gli specialisti del periodo, quasi non fosse mai esistito?
ha ragione lui, come sempre
giovedì 4 giugno 2009
finestre
Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell'interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa un'immagine della vita umana, de' suoi stati, de' beni e diletti suoi?
mercoledì 3 giugno 2009
qualcosa non mi torna...
(ANSA) - RAVENNA, 2 GIU - Fabrizio Corona denunciato dai Cc di Milano Marittima per guida senza patente perche' revocata. E gli sono stati pure tolti 10 punti. Dopo ripetuti sorpassi nei pressi di incroci, Corona e' stato bloccato attorno alle 22 di sabato a pochi metri da una caserma, su una Maserati a noleggio dopo una segnalazione arrivata dai pressi del casello di Faenza dell'A14. Pare che la Maserati viaggiasse da tempo a velocita' sostenuta. Fermato, Corona avrebbe ammesso le proprie responsabilita'.
DOMANDE:
- se la patente non ce l'ha, come hanno fatto a togliergli i punti?
- per noleggiare una macchina, non si deve presentare una patente?
- e comunque, chiunque gliel'abbia noleggiata, poteva mai non sapere dei suoi guai giudiziari, ritiri di patente compresi?
- ma quest'uomo (peraltro più volte recidivo) un po' di giorni di galera non se li fa mai? proprio mai?
- che cazzo significa che ha "ammesso le proprie responsabilità"? che altro deve fare uno sorpreso in flagrante?
- ma esistono leggi ad personam per Fabrizio Corona?
- ma questo tizio chi lo protegge? chi è? da dove viene? e come ci è arrivato?
Insomma, lo confesso: io ho paura.
continuità
martedì 2 giugno 2009
malinconia
Alfonsina Storni Martignoni nacque nel 1892 nel Canton Ticino e a quattro anni emigrò in Argentina con i genitori. Fin da piccola svolse i lavori più umili per aiutare la famiglia a tirare avanti. Nel 1907 si aggregò a una compagnia di attori, poi riuscì a diplomarsi e cominciò a lavorare come maestra in una scuola rurale. Sono di quegli anni le prime poesie, pubblicate su riviste argentine.
Nel 1911 si trasferì a Buenos Aires e l'anno dopo, senza essere sposata, ebbe un figlio che crebbe da sola, senza mai rivelare il nome del padre. Negli anni '20 le sue poesie ricevettero numerosi riconoscimenti: Alfonsina conobbe i maggiori letterati argentini, lavorò come giornalista, si avvicinò al socialismo, organizzò biblioteche popolari. Ma il successo la portò a un crescente disagio che sfociò in una nevrosi. Iniziò a viaggiare, visitò l'Europa dove conobbe Pirandello, Marinetti, Garcìa Lorca.
Nel 1935 fu operata per un tumore, ma quando seppe che l'operazione non aveva avuto successo scelse il suicidio.
Andò in un piccolo albergo della località balneare di Mar del Plata, scrisse la sua ultima poesia e la inviò a un giornale. Il giorno dopo, il 25 ottobre 1938, andò sulla spiaggia ed entrò in mare, lasciandosi trascinare al largo dalle onde.
"Alfonsina y el mar", musica di Ariel Ramirez, testo di Felix Luna. Canta Mercedes Sosa.
Buon ascolto.
Per la sabbia soffice che il mare lambisce
la sua piccola orma non torna più indietro
e un sentiero solitario di pena e silenzio è arrivato
fino all'acqua profonda
e un sentiero solitario di pura pena è arrivato
fino alla spuma.
Lo sa Dio che angoscia ti ha accompagnato,
che dolori antichi hanno spento la tua voce
per addormentarti cullata nel canto
delle conchiglie marine,
la canzone che canta sul fondo oscuro del mare
la conchiglia.
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine:
quali nuove poesie sei andata a cercare?
E una voce antica di vento e di mare
ti lacera l'anima
e la sta chiamando
e tu vai fin là come in sogno,
Alfonsina addormentata, vestita di mare.
Cinque piccole sirene ti condurranno
per strade di alga e di corallo
e cavalli marini fosforescenti faranno
un cerchio al tuo fianco
e gli abitanti dell'acqua nuoteranno
subito al tuo fianco.
Abbassami un po' più la luce
lascia che dorma in pace, balia,
e se lui chiama non dirgli che ci sono
digli che Alfonsina non torna
e se lui chiama non dirgli mai che ci sono
digli che me ne sono andata.
Te ne vai Alfonsina con la tua solitudine,
quali nuove poesie sei andata a cercare?
E una voce antica di vento e di mare
ti lacera l'anima
e la sta chiamando
e tu vai fin là come in sogno
Alfonsina addormentata, vestita di mare.