sabato 9 dicembre 2017

quattro poesie di Maria Borio

 (i testi vengono da qui)

Isola

Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola
sembra una faglia sull’orizzonte,
il semicerchio della struttura che dice
il potere di rendere solida l’acqua
e liquefarsi al momento
che hai finito di circoscrivere.

Qui le ore distinguono
il silenzio netto, il rullio dei treni,
le gocce nell’aria, le fibre –
ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:

le curve del tempo vuoto
la fuga nel sottopassaggio
l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo decongelato
gli artefici di questa pulizia di vetro
o una prova molto umana per fermare un azzurro fragilissimo.

Seduti al limite della fontana
ecco il sorpasso: il freddo incorruttibile
si restringe e una folla normale
scala i tratti del volto. Al bar mi dici
che è metafora del mondo
oggi trattenendo il cibo nella bocca
il grande vetro di questi edifici
e il cibo profondo negli organi:

meccanica e carne invisibili
e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro
entrando uscendo dal grande vetro
come l’arte afona e oscura di Duchamp
taglia a sezioni.

Nel caso premi la mano, può frangersi

o resistere come l’etere resiste,

e lì coscienti o da noi separati

puro e impuro,

il grande schermo di Isola

o un continente.

(Il luogo di Isola è l’omonimo quartiere di Milano, 2015-2016)

*

Atmosfera

Ogni respiro è una piccola morte
o forse come dire le mani sulla pancia
vuota di una donna che dentro vuole

un figlio. Ogni respiro si ferma quando
pensiamo al futuro di una generazione
in stanze condivise, contratti condivisi

le mani sul diaframma alto e basso,
se alto dire “saremo”, se basso dire
la pancia esile a cui nessuno fa caso,

quanto sia vera, quanto il desiderio
sia “posto” come quello del palazzo
piantato da anni vicino al fiume,

appartamento che tiene vite multiple,
o quello sulla riva dei platani tranquilli
della famiglia delle anatre che sceglie

libera dove farsi la casa. Noi ascoltiamo
il ritmo di un respiro, la pancia
che si alza, si abbassa, si tende

mentre la tocchi come non dovesse
rapprendersi mai, non è l’arancia vecchia
che in cucina abbiamo dimenticato.

Pensiamo alla massa giovane dei bianchi
di cultura bianca e la loro vita appena adulta
in stanze, contratti, questa pancia

tutta occhi che riconosce, classifica, scrive
sopra il cervello dell’intestino. Sono nati
gli anatroccoli perché è maggio, la famiglia

migra all’argine vicino al parco. Avete visto
la traccia del nido strappato, una cortina
di ruggine. Così l’appartamento quando è vuoto

come se tutti si fossero spostati lasciando
i giocattoli filamentosi, i vestiti industriali,
contraccettivi, scatole d’aria.

Seguiamo la corrente, sentiamo altre forme:
sotto le case fondamenta, sotto la riva radici.
Il cono dell’atmosfera vuoto su tutti, azzurro.

Torino, maggio 2017

*

Distanza

Fermati e ritaglia la regola delle due parti,
i piedi come sono lontani dagli occhi:

in ogni persona fissa questa distanza.
Il corpo di tutti è unità di misura,

ma nessuno uguale – la distanza che sempre
trema dai capelli ai talloni dei bambini

adesso è il contatto tra il caldo a morsa dell’estate
e la pioggia grigia quando iniziano ad abitarsi.

L’aria è ferma, arsa, lenta come una bestia.
La distanza tra piedi e occhi asciuga.

Sul fondo della valle siamo rimasti schiacciati,
non più reali – noi e le macchine, i covoni pressati,

i cavalli calmi. L’aria preme lo stomaco: a volte toglieva
colore ai cespugli del lauro, lo fissava negli occhi

e credevamo che l’atmosfera diminuisse,
che avessimo respirato solo pensando

al colore. Salivamo – mi guardavi come se tutte le luci
del fondo fossero occhi e potessero guardarci.

La distanza tra i capelli e i piedi trema selvatica
fra il punto più alto di questa collina e a est

la gemella, una forma pulita e la schiena
di un cavallo che dorme. La luna è alta in fretta.

Restiamo vuoti a guardarla senza saperle dare un nome
le teste senza meta che la cercano.

Perugia-Assisi, agosto 2017

*

Nord

Sapersi avvicinare.
Così vediamo l’enigma della distanza
dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato.
Inizio chiamando le isole d’erica e ghiaccio
l’alba atlantica
un aereo al decollo
versi crudi di gabbiani come sottili catene.

Chiedete nudità. Le scogliere si aprono
più a sud in un prato piatto
e gli animali sono immobili
come una sinfonia che si avvolge su se stessa:
pensavo alla loro bicromia
stordita di sidro trovando in qualche angolo
della lingua il barniolino
mele acide, bacche rosse
la pianura emiliana premuta dalla nebbia
che si incastra nei movimenti.

Affacciati, dall’alto sul mare,
ripeti la vertigine
nel basso della pianura
in contrappeso.

Mi sono affacciata ed era spazio più ampio
una meridiana arsa di capperi e lava
tesa a lande calcaree, dorsali.
Gli uomini sdraiati sul fondo dell’Europa
forse mi hanno guardato, e chiedo
sarete intrecciati nei posti che ho visto
in uno solo breve come poter dire
cosa sono i miei anni minuscoli
attraverso lo scontro di sud e nord.

Ogni luogo appartiene ad altri.
Li appoggio senza genealogia,
gli do odore, ricevo umido e arido.
Ci bagnano o uccidono.

Ero nel punto più alto della scogliera
nel vento del nord affilato, lunare.

Voi li abitate adesso. Avvicinatevi.
Mi affaccio, salto –
da roccia a roccia sopra un resto.

Roma-Londra, 2016



Maria Borio è nata a Perugia nel 1985. È dottore di ricerca in Letteratura italiana. Una raccolta di sue poesie, Vite unite, è presente nel XII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2015); nel 2017 è uscita la sua prima silloge, intitolata L'altro limite (Lietocolle). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Ha scritto i saggi “Satura”. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (in uscita per Marsilio).



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