Ad esempio, partecipando negli anni a
un po' di concorsi poetici, qualcuno vincendone, in qualcuno venendo segnalato, in qualcuno serenamente ignorato, ho imparato che esiste una precisa
tipologia di poesia: la Poesia-Vincitrice-di-Concorso (PVdC).
(Ora, non è questo il luogo per
descrivere il grigio sottobosco dei concorsi letterari: quelli
organizzati dagli assessorati alla cultura della Val di Magra o della
Comunità Monti della Sila; quelli che ti chiedono 30 euro di
iscrizione in cambio di premi che consistono in “libri, diplomi e
attestati”, consegnati nella prestigiosa sede di Palazzo Strozzacapponi a Casa del Diavolo; senza interrogarsi - organizzatori e partecipanti inclusi - sul fatto che, per 30 euro e forse persino per meno, posso benissimo andare
a comprarmi una bella targa e farci incidere sopra che mi sono
classificato primo con menzione d'onore al rinomato Concorso Poetico Colli del
Cesenate. Sono cose che bisogna vivere, per capirle).
Ma torniamo alla PVdC.
Innanzi tutto, la PVdC deve essere bruttina, ma non talmente brutta
da esserlo in maniera plateale: diciamo mediocre.
Poi, dev'essere scritta o in rima (che fa classico), oppure in
versicoli pseudo-ungarettiani (che fa moderno).
Deve trattare temi come: i gabbiani al
tramonto; la pioggia d'autunno; un bel paesaggio, meglio se
campestre; affetti familiari, buoni sentimenti, leziosità assortite;
piccole notazioni di realtà quotidiana; un fatto sociale importante,
ma sempre canonizzato dalla consuetudine dei titoli di giornale; un
viaggio in luoghi esotici, ma non troppo.
Soprattutto, la PVdC deve attenersi
rigorosamente al genere tardo-Ottocento/primo-Novecento, con
obbligatoria effusione lirica. Insomma, sentimenti sentimenti e ancora sentimenti.
Niente realismo, che in poesia certe cose non si dicono; niente
sperimentalismi, che sennò poi épatons les bourgeoises;
però magari un blando modernismo sì; non oltre Palazzeschi,
comunque. Sennò, viene sempre buona qualche cara vecchia figura
retorica sopravvissuta dai tempi del liceo: una metafora (non troppo
ardita), una sinestesia, uno zeugma. Per i più avventurosi, una
prosopopea, un'epanadiplosi, un'ipallage, magari addirittura un
cleuasmo. Questo è l'unico campo dove ci si può sbizzarrire.
In buona sostanza, la PVdC deve piacere
alle professoresse di lettere (ce n'è sempre una, in ogni giuria di
concorso) e non deve dispiacere all'assessore (anche di quelli ce n'è
sempre uno: spesso, un ex-alunno della professoressa). Deve titillare
la prima là dov'è più sensibile – sull'erudizione libresca – e
deve dare al secondo l'impressione di respirare, una volta tanto,
l'aria sottile della Cultura. Senza causargli il mal di montagna,
però.
La scrittura di una PVdC è un fatto
molto meno semplice di quel che sembra. Occorre avere un po' di
scintilla poetica, ma un po' meno di quel che basta a scrivere poesia per
davvero. Fare finta di essere poeti, ma credendoci sul serio. C'è gente che ci ha costruito una carriera.
Le PVdC hanno un loro habitat naturale:
le antologie dei premi poetici, che dopo la pubblicazione tendono a
migrare per sparpagliarsi nelle librerie di zii, suoceri e amici di
famiglia, e lì restare, nella serena attesa del macero.
5 commenti:
io mi vorrei buttare nei concorsi narrativi. hai per caso qualche consiglio per un RVdC? :))
ma a che giovano?
non so forse a volte c'è un premio in denaro ed allora magari giova, ma altrimenti?
@Dinamo
Non sono esperto, ma presumo valgano più o meno gli stessi principi. Non so, prova con un racconto sulla morte di tua nonna, o sul primo amore (possibilmente infelice).
Quelli funzionano sempre.
@amanda
Non servono a un cazzo, infatti.
Io partecipo o se si vincono soldi (che comunque non si vincono), o se ti pubblicano sul serio (cioè, libri veri, non antologie), oppure se il concorso è serio (e quello si vede da molte cose, prima fra tutte la giuria).
Serenamente amaro (o amaramente sereno) questo tuo post, che ho apprezzato molto.
Posta un commento