Una sera, alle tre di notte, sul colle dell'Infinito di Recanati, dove stanno scolpite le prime parole di una delle poesie più belle di tutti i tempi, mi sono reso conto che "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" è un verso assai banale, che avrebbe potuto essere scritto da qualsiasi poeta minore del romanticismo, e forse di altre epoche e correnti. Che deve essere un colle, in linguaggio "poetico", se non ermo? Eppure senza quell'inizio scontato la poesia non prenderebbe avvio, e forse occorreva che banale fosse, perché potesse essere avvertito infine il sentimento panico di quel naufragio, poeticamente memorabile.
Oserei dire, sia pure per amor di tesi, che un verso come "Nel mezzo del cammin di nostra vita" ha la cantilenante dignità di una zeppa. Se non ci fosse stata la Divina Commedia dietro non gli avremmo dato molta importanza, forse l'avremmo registrato come un modo di dire.
Umberto Eco, "Il fascino della Venere di Milo.
Parti mancanti, eccessi e zeppe: l'arte delle opere imperfette"
(La Repubblica, 7 luglio 2012, p. 44)
2 commenti:
mi sono goduta ieri quest'articolo spaparanzata su un prato in montagna al fresco :)
imparai L’infinito a memoria
senza conoscere il significato della parola ermo. suono meraviglioso
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