Ora che la primavera si fa avanti in tutto il suo fulgore; ora che la temperatura esterna comincia ad avvicinarsi a valori civili; ora che la quantità di ore di sole sta diventando ragionevole; ora che la pelle si libera, strato dopo strato, da lane e tessuti, recuperando il naturale contatto con l'aria; ora che il mio organismo comincia a sciogliersi dalla rigidità del letargo invernale; ora mi viene da pensare alla controra.
Non sono sicuro che un non-meridionale possa capire che cosa sia la
controra.
È una categoria che ha a che fare più con il tempo interiore che non con quello cronologico.
La controra sono le ore più calde del giorno, specialmente d'estate. Le prime ore del pomeriggio, subito dopo pranzo, più o meno tra l'una e le quattro, quando l'assalto del sole trasforma ogni uscita in una sfida alla propria salute, e a tutti, sbrigate le ultime faccende indispensabili, non resta che recludersi in casa, con le imposte abbassate, a cercare con metodo, nella penombra, gli angoli più freschi e ventilati.
È l'ora del silenzio, in cui ogni rumore echeggia amplificato, come in una scatola vuota, e la mente è più propensa ai sogni umidi, alle fantasticherie torbide della digestione (i pranzi domenicali del Sud, chi non li ha mai provati non può capire) e, nelle giornate più favorevoli, alle visioni.
La controra è l'ora anticapitalista, l'ora in in cui non si sgobba, non si produce, non si è utili a nessuno tranne che a se stessi.
Proprio per questo, durante quelle ore, a me piaceva uscire e percorrere le strade deserte, specialmente quelle del centro, i vicoli stretti e tortuosi, lastricati di pietre vulcaniche butterate dallo scalpello, dove si mescolavano gli odori fermentati della spazzatura, del piscio e delle merde di cane, che salivano dal basso, con quelli refrigeranti dei panni stesi, che scendevano dall'alto. Oppure mi chiudevo in soffitta, con la mia collezione di fumetti, a leggere Tex (preferibilmente
vecchi Tex, con la copertina scarabocchiata, il dorso in briciole, la carta ingiallita e macchiata d'umido) di fronte a una finestrella che dava su un parapetto di tegole coperte di licheni, quindi sui tetti del paese; infine, lontanissimo, il Gargano, che si sollevava dalla pianura simile a un'immensa, incombente onda di tsunami.
Ecco, se devo essere onesto a me non manca il Sud. Non mi mancano i luoghi né le persone né tantomeno le abitudini, che ho abbandonato senza il minimo rimpianto. Però ogni tanto mi mancano alcune cose, minime, insignificanti: l'odore muffito dei pavimenti in soffitta; il silenzio ovattato dello studio di mio padre, un paradiso tappezzato di libri; il caldo che nelle notti estive esalava dai muri, quando tornavo a casa dopo lo struscio serale; il profumo del ragù che bolliva la domenica mattina; il gradino su cui io e G. ci appiattivamo le chiappe, chiacchierando di nulla per pomeriggi interi; le urla da muezzin dei fruttivendoli al mercato.
E la controra.
5 commenti:
io e mio fratello subivamo le reprimende di nostro padre che al primo bisbiglìo ci rimbrottava:"n'voj sndì mang 'na mosk vulà" e noi di rimando,uscito che fu,"zhzhzhzhzhzh"
Che nostalgia.... :-)
Ciao,Alfredo
ho amato la controra fin dai primi soggiorni nel sud d'Italia. girovagare in quelle ore ha (per me) qualcosa in comune con il passeggiare per le città deserte nei giorni di Ferragosto
ti manca la tua adolescenza :)
antonio, l'adolescenza è stata, in assoluto, il periodo più brutto della mia vita. non rivivrei quegli anni neanche per tutto l'oro del mondo...
ecco ora me l'hai spiegata per filo e per segno :)
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