venerdì 6 novembre 2009

i racconti del prefetto 1 - macedonia

“Lo dicono i libri di storia; che per seguir[e] [Alessandro Magno] in oriente e arrivare dove finisce la terra, i macedoni hanno marciato per tanti anni che non si può saper quanti. E han traversato tutti i popoli immaginabili, le montagne e i deserti; ogni tanto facendo la guerra e ogni tanto fermandosi a riposare in mezzo a genti sconosciute dai costumi inverosimili. E andavano sempre di più verso levante.
Io credo anche che sposassero ogni tanto le donne che incontravano lungo la strada; e senza volere imparavano le frasi del luogo, per poter chiacchierare di notte e capire i discorsi d'amore.
Finché dovevano partire di nuovo.
E Alessandro, anche lui, prendeva le figlie dei re, e per non esser scortese si faceva insegnare le buone maniere e si faceva vestire secondo l'eleganza locale.
Così, per imitazione, assumevano i modi e le fogge di ogni popolo che traversavano.
Ad esempio vedendo gli Armeni qualcuno già si era disfatto dell'elmo, che in quei climi fa bollire la testa, e portava un turbante. Qualche altro preferiva una rete di vimini allo scudo di bronzo. Alcuni, invece del giavellotto, avevano un falco o un grifone sopra una spalla, e altri come corazza portavano squame di pesce, altri della corteccia o le foglie di dattero; altri si coprivano di fango seccato.
Mangiavano le salamandre come i Cimmeri, le formiche, le scimmie; e un formaggio di latte munto da una specie di pino. Usava così tra i Sauromati. Non parliamo poi dei vestiti: chi si vestiva di cuoio, chi di tela, chi di pelli di chinghiale o leopardo; e portavano drappi di seta, anelli, anellini, o la testa rasata; pantofole, sari, mazze ferrate, piume di ibis e fenicotteri a colori sgargianti. E alcuni si pitturavano con la radice del betel, altri avevano tutta la pelle arabescata.
Quando il ghibli gli spazzava la testa, qualcuno si chiudeva in un palanchino caricato su un bue.
Ormai erano in pochi a cavalcare i cavalli, e invece, come avevan veduto, montavano struzzi, elefanti, antilopi, zebre, caproni, cammelli; e qualcuno che aveva catturato uno schiavo dell'Arabia felice o un etiope, che sono famosi per correr fortissimo, gli aveva messo una specie di sella e lo spingeva al galoppo a tutta furia, a suon di frustate.
Così ogni battaglia era un pandemonio incredibile; e continuavano a vincere perché i nemici non ne capivano la strategia militare: se avessero avuto di fronte la famosa falange, forse l'avrebbero anche affrontata, ma così, dicevano, non era più una battaglia leale, era una buffonata. E abbandonavano il campo dopo averli riempiti d'insulti. Cosicché i macedoni non hanno trovato più ostacoli, e avanzavano.
Ma era sempre peggio, e Alessandro non voleva tornare.
Così a poco a poco hanno anche smesso di capirsi tra loro, perché non riuscivano più a fare un discorso filato e ci mettevano dentro di tutto: le sillabe tronche dei Massageti, la cantilena degli Alizoni, le parole di ogni città in cui s'eran fermati, mischiate.
Quando sono arrivati a Lahore sembravano dei balbuzienti, e per parlare ci pensavano tanto che alla fine rimanevano muti. Avevano visto tutti i paesei, ma ormai non gli serviva più a niente perché non sapevano più come dirlo.
La gente correva a guardarli passare, e i bambini restavano impressionati.
Appena partiti per la spedizione, la loro forza era la disciplina, e s'intendevano perfettamente. Alla fine era una carovana di scervellati senza patria né legge”.
Il prefetto qui si è interrotto, allora gli dico:
“Ecco, sì, è proprio la stessa cosa. È la questione di essere apolidi che fa far la figura di esser dementi.”
“Sì, – dice lui – i macedoni avrebbero potuto fare un impero, ma nessuno li prendeva sul serio.”
“Come i bilingui che dico io.”
E il prefetto:
“Nessuno ha più pensato di sfidarli a battaglia, anzi, ogni città li invitava ad esntrare, perché facessero un po' di spettacolo. E dopo che Alessandro è morto in una di quelle regioni lontane, hanno percorso in lungo e in largo l'India e l'Assam, facendo salti mortali in groppa agli struzzi e esercizi pericolosissimi sulle zanne degli elefanti. Ma erano considerati incoscienti.”
“E come è finita?”
“Beh, col passare del tempo uno a uno morivano; però prendevano sempre altri animali; ormai cavalcavano orsi, ippopotami, pecore, e dicono che perfino avevano tentato di metter le redini a un grosso pitone e di farsi portare. Coi coccodrilli c'eran riusciti e ci galoppavano sopra anche in tre. Del resto per essere comodi avevano sistemato sui cammelli divani dai piedi d'argento, e sugli elefanti torri a due piani e palmizi per essere all'ombra.
Alla fine poi si sono estinti, lasciando dei discendenti che hanno formato una casta di domatori.”

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 97-99

4 commenti:

io ha detto...

ricorda un pò l"Altrove".. ?
some more comment, please..

sergio pasquandrea ha detto...

In realtà questi sono brevi racconti inseriti in una trama più ampia (e, sì, per certi versi possono ricordare "Altrove", anche se Cavazzoni ha un tono più estroso e ironico rispetto a quello quasi glaciale di Michaux).
Altri brani in arrivo nei prossimi giorni.

io ha detto...

bene, la missione così segreta da non conoscerne il contenuto era promettente..

io ha detto...

sorry, intendevo dire:che non ne conosceva il contenuto nemmeno lo stesso incaricato (come più meno lo racconti nella recensione)