Giorgio Falco, L'ubicazione del bene, Einaudi (Stile Libero Big) 2009 (141 pp., € 16)
L'hinterland milanese l'ho visto un paio di volte, sempre dal treno (mi ricordo una volta in particolare, all'alba, dopo una notte insonne in vagone-letto: aldilà del finestrino c'era un grigio compatto, e in quel grigio case fino all'orizzonte, tutto immobile, né vivo né morto, come un paziente in coma). Questo per dire che non so se Cortesforza, l'immaginario sobborgo in cui Giorgio Falco ha ambientato i nove racconti contenuti in “L'ubicazione del bene”, somigli o meno alle varie Abbiategrasso, Trezzano sul Naviglio o Gallarate. Ma in fondo non è che importi più di tanto.
L'importante è che Cortesforza è una distesa di villette a due piani, tre camere da letto, veranda, tavernetta, giardino annesso, abitate da ex-operai, pensionati, famiglie con bambini, uomini d'affari di quelli che una volta si chiamavano “rampanti”. Chi si è trasferito qui, a dieci chilometri dalla tangenziale e venti dal centro, l'ha fatto per sfuggire alla città, inseguendo l'illusione del relax e della natura (“qui è come al mare”). Ma l'aria che si respira è quella di un'infelicità opaca. Nascite morti matrimoni divorzi gite con gli amici liti tra vicini acquisti vendite traslochi, tutto avviene come a mezz'aria, senza lasciare traccia, senza che mai si arrivi davvero a una tragedia, senza che la tensione trovi uno sfogo. Al massimo qualcuno uccide il cane senza un perché, infilandolo vivo nel forno; oppure, alla fine di una riunione con i colleghi, organizza sfide all'ultimo sangue tra pesci siamesi combattenti; o "mette in cantiere" un figlio; o compra un serpente; o un cucciolo di carlino che faccia da surrogato a un bambino che non arriva; o continua ad abitare in una casa vuota solo perché ha ancora un vecchio pappagallo, ultimo ricordo della moglie morta.
È stato fatto il nome di Carver, come sempre avviene quando qualcuno usa uno stile oggettivo, chirurgico. Non conosco abbastanza Carver per sapere se il paragone è giusto, ma questi racconti sembrano finire senza una precisa ragione, come un programma televisivo interrotto dalla pubblicità. Anche i personaggi, in fondo, sono intercambiabili, e se ogni tanto fa capolino una voce narrante, è anodina quanto ogni altra.
Nessuno ha un obiettivo, nessuno lo cerca. Tutti, scrive Giulio Mozzi nel risvolto di copertina, “considera[no] una disperazione quieta e senza scosse – come un'anestesia – un obiettivo già accettabile per la vita”.
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2 commenti:
visione apocalittica ma rispecchia perfettamente la realtà. mi viene in mente il filmato che hai pubblicato tempo fa: c'era una specie di topo che girava a ritmo di "Bolero". poi l'inquadratura si allargava e ce n'erano tanti, tutti uguali, a stesso ritmo, all'infinito..
"sfide all'ultimo sangue tra pesci siamesi combattenti" ? però !
pardon: "allo" stesso ritmo,credo
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