Visualizzazione post con etichetta innovazione e tradizione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta innovazione e tradizione. Mostra tutti i post

giovedì 21 gennaio 2010

tradizione


Avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla.
(C. Pavese)

venerdì 17 aprile 2009

sguardi


“No him, no me”
(Dizzy Gillespie, parlando di Louis Armstrong)

Il jazz vive di antitesi.
Colto, ma di origine popolare; improvvisato, ma anche scritto; nero, ma anche bianco; sofisticato fino allo stremo, ma viscerale quanto nessun’altra musica.
Ma forse l’antitesi fondamentale è quella fra tradizione e innovazione. Si dice spesso che il jazz ha fatto in cent’anni il cammino che la musica classica ha fatto in cinquecento: la frase è vera solo in parte, però di sicuro esprime bene la tumultuosa evoluzione di questa musica, che ha cambiato faccia almeno una volta per ogni decennio
Eppure, nessun musicista, nemmeno i più sperimentali e avanguardisti, rinuncia mai a citare il passato come la propria fonte di ispirazione più importante (anzi, più il musicista è “d’avanguardia”, più sembra legato al passato: basta pensare a Ornette Coleman o all’Art Ensemble of Chicago). Lo diceva bene Max Roach: “Io vedo il jazz come un grande fiume sempre in movimento, dunque ogni generazione può apportare qualcosa di nuovo. Tuttavia ogni generazione è in un certo senso obbligata a guardarsi alle spalle: quel che conta è la continuità col passato piuttosto che la rottura. Il jazz è una musica democratica, che tiene conto degli apporti individuali per arrivare a una creazione collettiva”.
Pensavo a tutto ciò osservando una foto di Charlie Parker in concerto.
(continua su "La poesia e lo spirito")

sabato 4 aprile 2009

ancient to future



"Varrebbe la pena di ripensare il senso dell'interpretazione musicale, dalle riletture più o meno fedeli al fenomeno del revival, ovvero a come diversamente si organizzano nella musica colta e nella tradizione jazzistica le riprese del passato. Se nella prima tendono a misurare la distanza tra un prima e un dopo, fra ciò che è stato e ciò che è, marcando le tappe di un avanzamento scandito con rigore quasi militare (di cui è spia l'origine del termine "avanguardia") e fiducioso nelle possiblità conoscitive individuali, nella seconda indicano piuttosto i modi di un'ininterrotta ricerca di identità, fondata sul passato ma proiettata nel futuro e vissuta nel presente alli'nterno di una dimensione comunitaria. Nel lavoro del jazzman, infatti, non è mai questione di ripristino archeologico dell'esattezza dei ricordi, di fiducia nell'oggettività della memoria, quanto pittosto di assunzione critica della propria storia: è questione di riordinare le contingenze passate dando loro il senso delle necessità future, poiché la ripetizione è una forma di storicizzazione. Che questo avvenga prioritariamente nella dimensione dell'oralità costituisce una delle ragioni per cui la koine jazzistica non vive quell' "angoscia dell'influenza" che a parere di Harold Bloom caratterizza il lavoro dell'artista occidentale, la sua perenne ricerca d'originalità. Come ha scritto John P. Murphy, la scelta dell'improvvisazione e la valorizzazione del momento performativo evidenzano semmai una profonda "gioia" dell'influenza, ovvero la sua esplicita celebrazione. Non a caso anche gli artisti più radicali e innovatori hanno sempre ribadito il loro legame con la tradizione: da John Coltrane ad Archie Shepp, da Ornette Coleman a Cecil Taylor. Spiega a questo proposito Max Roach: "Io vedo il jazz come un grande fiume sempre in movimento, dunque ogni generazione può apportare qualcosa di nuovo. Tuttavia ogni generazione è in un certo senso obbligata a guardarsi alle spalle: quel che conta è la continuità col passato piuttosto che la rottura. Il jazz è una musica democratica, che tiene conto degli apporti individuali per arrivare a una creazione collettiva". Non so se Roach leggesse Eraclito, e tuttavia ciò che appare significativo nella scelta della metafora fluviale è propriamente il legame istituito fra essere e divenire: l'acqua del fiume non è mai la stessa, essa scorre, e giustamente ci si è domandati se sia possibile bagnarsi due volte nell'acqua dello stesso fiume. Ma è proprio l'incessante movimento del fluire a collegare la sorgente al mare, cioè l'origine al suo futuro. Per questo il fiume è divenuto fin dall'antichità figura dell'identità e metafora della vita, dal momento che, come assicurano i filosofi, la vita può essere compresa solo guardando indietro ma va vissuta guardando avanti.
Per Roach il movimento è esattamente ciò che lega, non ciò che separa. [...] Poiché tutto si organizza e si significa non nel gesto isolato dell'avanguardista, ma all'interno di una dimensione comunitaria ove si intrecciano indissolubilmente ethos e aisthesis, comportamento morale ed esperienza del bello. Per questo e altro ancora il jazz pone in essere una radicale critica delle categorie dell'estetica, in quanto forma d'espressione che mette in scacco le dicotomie a partire dalle quali l'estetica organizza il discorso sull'arte."
(Giorgio Rimondi, Il suono in figure. Pensare con la musica, Scuola di Cultura Contemporanea Mantova, 2008, pp. 105-107)

Nel video: Anthony Braxton suona Impressions di John Coltrane, accompagnato da Chick Corea (pianoforte), Miroslav Vitous (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria).

mercoledì 4 febbraio 2009

il destino è un cammello cieco


"Zuhair, nella sua lirica, dice che nel trascorrere di ottant'anni di dolore e di gloria ha visto molte volte il destino colpire all'improvviso gli uomini, come un cammello cieco; Abdalmalik afferma che questa figura non può più meravigliare. A questa osservazione si potrebbero rispondere molte cose. La prima è che, se il fine della poesia fosse la meraviglia, il suo tempo non si misurerebbe a secoli, ma a giorni e a ore, e forse a minuti. La seconda, che un grande poeta è meno inventore che scopritore.
Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto.
Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Così, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:

O palma! tu pure sei
in questo suolo straniera...

Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna."
Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.
J. L. Borges, "La ricerca di Averroè" (da "L'Aleph")

nuove strade (appunti di estetica)


Il mito dell'innovazione, il nuovo come valore in sé ("il faut être absolument moderne": ma l'arte fa i conti con il proprio tempo o con l'eternità?).

Essere "innovativi" è sempre e comunque un valore?
Non c'è nulla di più ortodosso di uno sperimentatore ad oltranza.
Il "nuovo" smette presto di essere nuovo (che cosa c'è di più banale, oggi, che scrivere una poesia mettendo una parola per verso?), il classico non smette mai di esserlo (anche se può metterci molto a diventarlo).
Il "nuovo" rischia di essere una prigione ancora più costrittiva della tradizione.

"Aprire nuove strade" è di per sé meglio che lavorare nella tradizione?
L'Ulysses è intrinsecamente meglio dei Buddenbrook? O, piuttosto, l'Ulysses ha senso perché viene dopo la grande tradizione del romanzo ottocentesco (che a sua volta nasce come espressione eversiva rispetto alle regole classiche)?

Pochi grandi innovatori sono nati tali.
Schoenberg, prima di creare il sistema dodecafonico, si sentì in dovere di scrivere un ponderoso trattato di armonia. E Coltrane, prima di lanciarsi in "My Favorite Things", esplorò il vocabolario bebop e hardbop fino a produrre "Giant Steps", che ne è l'estremizzazione. Poi lo distrusse e passò ad altro.

Calvino scriveva che l'unico modo per evadere da una prigione è conoscerne la mappa ("Il conte di Montecristo", da "Ti con zero", 1967). Non puoi aprire una porta se prima non ti rendi conto di dov'è, altrimenti ci sbatti il muso senza accorgertene.

C'è chi a 5 anni compone sinfonie e chi a 18 anni scrive "Le illuminazioni", però non si tratta di nascere dal nulla, piuttosto di precocità, di bruciare le tappe.
Ma i geni sono pochi, i presuntuosi tanti.