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mercoledì 4 febbraio 2009

nuove strade (appunti di estetica)


Il mito dell'innovazione, il nuovo come valore in sé ("il faut être absolument moderne": ma l'arte fa i conti con il proprio tempo o con l'eternità?).

Essere "innovativi" è sempre e comunque un valore?
Non c'è nulla di più ortodosso di uno sperimentatore ad oltranza.
Il "nuovo" smette presto di essere nuovo (che cosa c'è di più banale, oggi, che scrivere una poesia mettendo una parola per verso?), il classico non smette mai di esserlo (anche se può metterci molto a diventarlo).
Il "nuovo" rischia di essere una prigione ancora più costrittiva della tradizione.

"Aprire nuove strade" è di per sé meglio che lavorare nella tradizione?
L'Ulysses è intrinsecamente meglio dei Buddenbrook? O, piuttosto, l'Ulysses ha senso perché viene dopo la grande tradizione del romanzo ottocentesco (che a sua volta nasce come espressione eversiva rispetto alle regole classiche)?

Pochi grandi innovatori sono nati tali.
Schoenberg, prima di creare il sistema dodecafonico, si sentì in dovere di scrivere un ponderoso trattato di armonia. E Coltrane, prima di lanciarsi in "My Favorite Things", esplorò il vocabolario bebop e hardbop fino a produrre "Giant Steps", che ne è l'estremizzazione. Poi lo distrusse e passò ad altro.

Calvino scriveva che l'unico modo per evadere da una prigione è conoscerne la mappa ("Il conte di Montecristo", da "Ti con zero", 1967). Non puoi aprire una porta se prima non ti rendi conto di dov'è, altrimenti ci sbatti il muso senza accorgertene.

C'è chi a 5 anni compone sinfonie e chi a 18 anni scrive "Le illuminazioni", però non si tratta di nascere dal nulla, piuttosto di precocità, di bruciare le tappe.
Ma i geni sono pochi, i presuntuosi tanti.