"Zuhair, nella sua lirica, dice che nel trascorrere di ottant'anni di dolore e di gloria ha visto molte volte il destino colpire all'improvviso gli uomini, come un cammello cieco; Abdalmalik afferma che questa figura non può più meravigliare. A questa osservazione si potrebbero rispondere molte cose. La prima è che, se il fine della poesia fosse la meraviglia, il suo tempo non si misurerebbe a secoli, ma a giorni e a ore, e forse a minuti. La seconda, che un grande poeta è meno inventore che scopritore.
Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto.
Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Così, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:
O palma! tu pure sei
in questo suolo straniera...
Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna."
Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.
Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto.
Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Così, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:
O palma! tu pure sei
in questo suolo straniera...
Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna."
Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.
J. L. Borges, "La ricerca di Averroè" (da "L'Aleph")