Mai anni peggiori
di questi che noi viviamo,
né stagione più vile
coprì di rossore la fronte asciutta italiana;
cadavere fulminato
giace essa riversa sull’erba di una trazzera.
Così la sera del nostro vivere umano
quando la morte sprofonda nel fuoco della gola
e resta poca gente, sola,
a vegliare con gli occhi asciutti e a ricordare.
Cercare requie a un grande dolore.
Puntuale, atroce come una pestilenza
nella città medievale,
mentre s’abbattono sulle povere spalle
incubi, oscurità, strazianti segni,
sul rosso corallo dei pensieri
ciò che ieri era luce oggi si sfascia
in nembo nero, e una paura di morte,
la fatica di vivere, la sorte
che contrasta in grembo alla vecchissima terra:
tutto si aggruma come la tempesta.
Stridule sibille alzano voti,
vipere d’erba strisciano e inveiscono,
balenano le lame calabresi
e gli arbasini danzano perduti
nell’aria, gialle leggere futili farfalle,
a nulla intenti che allo splendido lume
nella sala addobbata.
I fuochi sono spenti.
Tutto sembra giusto ormai o sembra falso
e distrutto, in questo deserto,
alla fine di una lunga giornata.
Ma tutto ancora si può rovesciare.
Non può essere perso.
Roberto Roversi, da Dopo Campoformio, 1965