Lo so, lo so. Adesso tutti dicono che conoscevano Pazienza, che Paz una volta gli ha rollato una canna, che con Paz ci hanno fatto un viaggio in macchina da Pienza a Montepulciano e che in quell’oretta gli si è rivelato il senso della vita. Ora che è il ventennale, poi…
E quindi chi legge questo pezzo penserà: ecco, un altro che viene a parlarci di Pazienza.
E allora diciamolo subito: io Andrea Pazienza non l’ho mai conosciuto, se non attraverso le sue opere. Però con lui sento di avere un legame particolare, del tutto privato.
Perché sono nato e cresciuto a San Severo, la cittadina in provincia di Foggia dove anche Andrea è cresciuto e dove tuttora vive parte della sua famiglia.
Solo che quando lui è morto, nel 1988, io avevo 13 anni e a San Severo praticamente nessuno lo conosceva. Un mio amico mi raccontò che la madre di Andrea, professoressa di educazione tecnica alle medie, una volta lo aveva invitato a fare una lezione in classe sul fumetto, ma nessuno aveva dato particolare importanza alla cosa. Oggi, certo, ha una piazza intitolata a lui, si organizzano mostre (l’ultima proprio in questi giorni a Vico, un paesino del Gargano dove lui andava spesso da ragazzo). Nel cimitero di San Severo c’è la sua tomba, un piccolo pezzo di prato con un cipresso e un masso di pietra garganica dove è incisa la sua firma. Accanto c’è la tomba del padre Enrico, morto qualche anno fa.
Io ho scoperto Andrea Pazienza nei primi anni ’90 – nel ’92 se non ricordo male – quando (alla buon’ora) il comune di San Severo si decise a organizzare una grande mostra su di lui, con tavole originali, filmati, fotografie e un bellissimo catalogo. Mostra postuma, ovviamente. Fu lì che per me e per un gruppo di compagni di classe cominciò una sorta di culto esoterico per Pazienza. Durante le ore di storia e filosofia divoravamo i suoi fumetti: cercavamo invano di trattenere le risate davanti a “Sturiellett”, ci guardavamo gli scorci di San Severo che facevano capolino nelle “Figure storiche” e in “Pacco”, i panorami del Gargano ne “Il partigiano” e in “Un’estate”, commentavamo i passi più criptici di “Penthotal” e di “Pompeo”.
Poi ho scoperto che lui da ragazzo aveva abitato per anni in un palazzone a due passi da casa mia, che molte persone che conosco hanno conosciuto Andrea, e che c’è persino una lontanissima parentela acquisita fra mia madre e suo padre.
Qualche anno fa, a San Menaio, conobbi anche i suoi genitori, nella casa al mare dove Andrea trascorreva le vacanze da ragazzo. Le pareti erano piene di suoi quadri, e Giuliana, la madre, ci parlò di lui, per ore, come se parlasse di un innamorato. Mia madre le disse che io ero un appassionato e lei mi guardò con un sorriso quasi di compassione e mi chiese: “Ma sì, ma che cos’hai capito tu di Andrea?”.
Il padre, Enrico, era ormai molto anziano, quasi sordo, un po’ svanito, ma con un’aria distinta, signorile, davvero d’altri tempi. Dalle sue parole si coglieva l’amore viscerale (e pienamente ricambiato) che lo legava al figlio, ma ho avuto anche l’impressione che non fosse mai riuscito ad apprezzarne pienamente l’arte. Anche lui era un pittore, un magnifico acquerellista (ho un paio di sue opere a casa) e ci raccontava di quando Andrea faceva l’Accademia di Belle Arti e riportava a casa gli album dei lavori in classe, con i suoi disegni che facevano sfigurare quelli dei professori.
Poi ci fece vedere un quadro, uno di quelli che Andrea faceva da giovane: un’enorme composizione a pennarello con un’esplosione surreale e coloratissima di figure umane e di decorazioni astratte. Al centro c’era uno spazio vuoto, riempito da un autoritratto a pastello. Ci spiegò che Andrea aveva fatto quel quadro molti anni prima, ma lui continuava a chiedergli che cosa mai significasse quel guazzabuglio di figure e colori. Alla fine, per farlo contento, Andrea gli disegnò al centro quell’autoritratto, eseguito con uno stile classicissimo. E solo allora Enrico fu finalmente contento.