Ecco: adesso dovrei provare a tornare indietro. A rintracciare il primo gesto, quello da cui è zampillato tutto.
Ma non ci riesco.
Per esempio, ci sono io che spariglio le parole crociate di mio nonno inserendo a caso tutte le lettere che ho imparato: una R di qui, una T di là, una A quaggiù.
Ma c'era qualcos'altro, prima?
Sì: ci sono io che, in braccio a qualcuno (chi?), aggrotto la fronte nello sforzo di compitare l'insegna del negozio di elettrodomestici di fronte a casa.
Ma no, c'è qualcosa ancora prima.
Leggo una favola. No, non leggo: la so a memoria, faccio finta di leggere, forse tengo addirittura il libro al contrario.
Ecco, niente da fare: il gesto primordiale è lì in mezzo, da qualche parte, sommerso per sempre.
La prima parola scritta. O, meglio ancora: la prima decifrata, la prima che all'improvviso si è accesa di senso, la prima supernova grafematica esplosa tra i miei neuroni.
E allora, riproviamo: quand'è che le parole hanno smesso di essere supernovae, luci lontane e passive, e hanno cominciato a ustionarmi?
Ecco, questo me lo ricordo.
Mi ricordo che era il 1987 e avevo tredici anni, e c'era la premiazione di un concorso di poesia, i poeti premiati leggevano i loro testi. Testi bruttissimi, va detto.
Però è stato lì, in quel posto preciso, in quel preciso momento, che è cominciato tutto.
Lì mi ha abbagliato per la prima volta la consapevolezza che con le parole ci si poteva fare qualcosa.
Tornato a casa, scrissi la prima poesia di cui conservo precisa memoria. Non vi preoccupate, non ve la leggo. L'importante è sapere che c'è.
L'importante è che, da quel momento in poi, le parole hanno preso vita e io ho cominciato a rigirarmele tra le mani come strane conchiglie, a scrutarne gli spigoli, a tentarne gli accoppiamenti.
Ecco, ora che ci siamo arrivati, torniamo indietro.
Ripensandoci, mi pare di essere sempre stato avvolto da un liquido amniotico di parole. Parole parlate, parole lette da altri, e infine parole lette da me.
C'è la voce di mio nonno, che mi racconta di come la volpe ingannò il lupo, e di quell'omino tutto felice perché aveva trovato un cece (anzi, “un cicetto”, come diceva lui), e di quel ragazzino che non voleva proprio mangiare il suo maccherone e di quel che ne seguiva.
Ci sono i nomi: Sandokan e Tremal Naik, Mowgli e di Bagheera e Shere Khan, e Jim Hawkins e Cane Nero e Long John Silver, e poi Hans Castorp, che mi schiudeva le porte della vita adulta, e Arsenio ed Esterina e Dora Markus.
E poi ci sono i versi, quella trapunta di parole, quel ricamo minuzioso che brulica, ora più fitto ora più rado, al di sopra e al di sotto dei miei ricordi.
Ecco, ora sarebbe il momento delle domande. Le grandi domande, quelle assolute, definitorie, che ti appendono al muro come spilli.
Anzi, della domanda. Perché scrivo?
Io ci ho provato, a rispondere.
Ad esempio, ho tentato con le metafore:
Scrivendo
ricalco i confini del vuoto.
Oppure ho scritto che
Forse anche le idee vogliono vivere
respirare leggere il giornale
le mie sono ali di mosca impiastricciate.
Le idee dovrebbero farsi male
come i bambini scherzando
mangiarsi schioccando le labbra
Ho persino scritto:
Pensavo a una poesia che potesse
arredare una stanza
lasciar intravedere il paesaggio al di là delle persiane
posarsi come polvere.
E una volta ho anche scritto che
Le parole ci visitano
vanno e vengono da luoghi
impronunciabili – encefalo Es
Anima Mundi. Soggiornano
a volte per tempi lunghissimi, a volte
appena quanto basta per lasciare
tracce leggere sulla carta. Sono ospiti inattesi
e intoccabili, odiosi e inamovibili.
Ma mi accorgo che, di qui, non si arriva da nessuna parte.
La verità è che con questi ospiti io continuo a conviverci; volentieri, malgrado tutto.
Perché ci sono nella mente minime scalfitture, ed è di lì che le parole affiorano, che la linfa si raggruma in versi. È attraverso queste lesioni che i sogni più inconfessabili salgono a reclamarci.
E penso spesso che, se sopravvivrò, sarà proprio per la parte più stanca e crivellata della mia mente; per questo cieco insistere di radici.
Ecco, forse ero più vicino alla verità quando ho scritto che
Ogni volta è come la prima e ogni volta sembra
l'ultima. Ci si chiede dove il silenzio abbia sede
dentro o fuori.
Resta il fatto che il risveglio è sempre spietato
ti lascia con la pelle scorticata
la testa che rimbalza come dopo il pugno
e le parole sempre arroventate
bisogna lasciarsi squarciare.
Perché il dubbio, poi, resta sempre: chi genera chi?
Se, in questo ottuso gocciare di momenti dietro momenti che è la vita, potrò dire di aver vissuto, non sarà forse per questi attimi concessi con parsimonia, per queste parche evasioni dall'Io, questa docile collisione di corpo ed anima, questo frantumarsi in schegge sonore?
E allora, come potrò dire che le parole sono
mie?
Non dovrò forse dire che
io sono
loro?
Ecco, è ora di accettare il fatto: che per quanto cerchi di liberarmene, questa placenta di parole che genero, e dalla quale sono generato, è quanto di meglio io possa lasciare in eredità al mondo.
Quest'alito che ancora adesso, pervicacemente, mando a raggrumarsi su un foglio bianco, sullo schermo lucente di un computer. E sono davvero nato, nato a me stesso, nato al mondo, quando ho raccolto e deposto la prima semenza di parole.
Prima c'è un graffio leggero nell'aria, uno slancio di libellula, una traiettoria capricciosa, come quella dei semi alati che sotto i pini cercavo di catturare, prima che toccassero terra.
Ecco, io non toccavo terra, prima. Passavo leggero.
Sono state le parole a regalarmi la gravità, a consegnarmi al mondo, a insegnarmi i confini precisi del mio essere.
E solo con le parole posso combattere il peso, tollerare la vista dell'enigma, avere pietà della vita, reggere il cranio sulle vertebre.
È un dono crudele e nutritivo.
È un dolore da difendere.