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lunedì 27 aprile 2009

italo calvino 6 - Calvino e il Sessantotto


Sesto estratto dalla mia tesi di laurea.
I capitoli precedenti:
0. introduzione
1. la fine dell'impegno (1974-1985)
2. la belle époque inaspettata
3. Pavese se ne va
4. Vittorini e l'utopia
5. Eremita a Parigi


* * *

Per Calvino, Parigi non fu solo un “eremo” in cui ritirarsi, ma significò anche il rifiuto di ogni visione campanilistica della cultura: “cos’è questa contrapposizione tra cultura italiana e “estero” - scriveva nel ‘69 a Gianni Celati -, oggi che ognuno studia quel che gli pare, appartiene alla cultura che sceglie?”. I suoi contatti con la cultura francese vanno dal dibattito filosofico (Derrida, Lacan) alla semiologia di Barthes e di Greimas, dall’antropologia di Lévi-Strauss alla ricerca letteraria dei gruppi di “Tel Quel” e dell’Ou.Li.Po. (soprattutto Queneau e Perec, e attraverso di loro anche Jarry e Roussel), fino a intellettuali come Foucault, Leiris e Blanchot, anche se Calvino, con il suo solito spirito empirico, dichiarava di provare interesse per discipline come la semiotica, ma diffidenza per ogni tipo di sapere che avesse ambizioni totalizzanti:

Io non sono mai stato capace d’accettare un linguaggio codificato, sento subito il bisogno di romperlo, di dire le cose in un’altra maniera, ossia di dire altre cose. [...] Insomma non è che stando a Parigi mi senta spinto a seguire dall’interno lo sviluppo delle varie scuole, settimana per settimana. [...] Sono le ricerche che non hanno una suggestione letteraria diretta, che mi interessano di più [...]. Ma siamo sempre lì, sono cose che un empirico come me non può permettersi, bisogna adottare quel modo di pensare e lasciar perdere tutto il resto, e io non sono mai stato capace di pensare una cosa per volta, penso sempre qualcosa e il suo contrario, quindi è inutile che mi ci metta.

Inoltre, anche se in questo periodo scarseggiano gli interventi diretti sulle pagine dei periodici, che erano stati il principale campo d’azione del Calvino critico fino a tutti gli anni Sessanta e che riprenderanno nel ‘74 sul “Corriere della Sera”, l’atteggiamento verso gli avvenimenti di questi anni risulta ben lontano dall’ “estraneità” di cui parla Ferretti.
Gianni Celati, che in questo giro d’anni fu molto vicino a Calvino, racconta di averlo incontrato a Urbino nell’estate del ‘68 e di averlo visto entusiasta degli avvenimenti del maggio di quell’anno:

Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione; e mi raccontava che gli psicanalisti parigini durante quelle giornate avevano perso tutta la clientela; e infine mi spiegava la sua sensazione di essersi levato dei pesi di dosso, e che adesso si sentiva di “voltare pagina”.

L’articolo Per una letteratura che chieda di più (Vittorini e il Sessantotto) individua nel maggio parigino la stessa istanza antiautoritaria che aveva animato Vittorini (nell’intervista con Camon, Calvino dichiarerà che “Vittorini era morto alla vigilia d’un momento che sarebbe stato il suo momento [...]. La spinta antirepressiva, antiautoritaria era stata il suo motivo costante, fino all’ultimo. [...] La sua presenza [...] avrebbe dato a questo periodo una dimensione che poteva avere e non ha avuto”). La reazione di Calvino a quegli avvenimenti fu la voglia di rilanciare un’idea di letteratura che riuscisse a dire qualcosa di veramente nuovo, rispetto al tran-tran della “industria culturale”:

Nella letteratura c’è la diffusa sensazione d’un fallimento, d’una voglia di ricominciare da zero [...]. Se la letteratura è vissuta come ragione rivoluzionaria (come pare lo sia nella gioventù francese, a livello di massa, non di leaders) lo è come richiesta ancora da assolvere, esigenza in larga parte in bianco, pagina ancora da scrivere [...]
Così vedo la letteratura che caratterizzerà l’inizio di secolo che ora stiamo vivendo: come discorso che conta per l’esigenza su cui si apre, e non per il modo in cui può soddisfarla. Una letteratura che deve servire ad alzare continuamente la posta.

Proprio in questi anni (dal 1968 al 1972) Calvino aveva raccolto un gruppo di giovani intellettuali (“negli ultimi anni gli amici con cui discuto con soddisfazione sono tutti molto più giovani di me” affermava nell’intervista con Camon) che comprendeva tra gli altri Gianni Celati, Carlo Neri e Carlo Ginzburg; con loro progettava una rivista che avrebbe dovuto esprimere tali esigenze. Di questo progetto, Mario Barenghi sottolineava l’importanza in quanto “anello mancante della catena dell’impegno calviniano”, “stazione intermedia tra l’esperienza interrotta del «Menabò» [...] e una stagione successiva, caratterizzata da un lato dalla collaborazione individuale con i grandi giornali italiani, dall’altro [...] dalla partecipazione [...] a un movimento letterario assolutamente sui generis come il parigino Oulipo”.
Anche se la rivista non uscì mai, gli scritti calviniani ad essa collegati, insieme a tutto il materiale preparatorio, recentemente pubblicato1, consentono di farsi un’idea piuttosto precisa di quale dovesse essere il suo indirizzo e di comprendere meglio gli orientamenti teorici di questi anni: ad essa si collegano, infatti, oltre a Lo sguardo dell’archeologo, già edito in Una pietra sopra, e a un breve testo pubblicato nel Meridiano Mondadori dei Saggi (pp. 1710-17) col titolo Un progetto di rivista, anche scritti importanti, come la recensione del ‘69 all’Anatomia della critica di Northrop Frye e quella del ‘70 al Dostoevskij di Michail Bachtin, tradotto due anni prima - autori di cui Calvino discute ampiamente nelle lettere a Celati - oltre a una, più tarda, a Spie: radici di un paradigma indiziario di Carlo Ginzburg (pubblicato su “la Repubblica” del 20-21 gennaio 1980); inoltre, molti pezzi poi compresi in Una pietra sopra (Il sesso e il riso, Il romanzo come spettacolo) riecheggiano i temi che avrebbero dovuto entrare a far parte della rivista.
Sono articoli che vengono a delineare quell’idea “antropologica” di letteratura come “repertorio del narrabile”, “combinatoria di archetipi”, che Calvino andava sviluppando in questi anni .

In definitiva, si può dire che, nonostante il “romitaggio” parigino e l’eclisse di quella figura di intellettuale militante che aveva incarnato per oltre un ventennio, Calvino fosse ancora lontano dall’estraniarsi dalla realtà contemporanea e dal rinchiudersi nella perfezione di un “mondo scritto” senza più contatti con il “mondo non scritto”. Come vedremo in questo capitolo, il discorso critico di questi anni continua sempre a fare i conti con la politica, a voler delineare una nuova idea di società, anche se l’utopia sarà costretta, di fronte alla caoticità del mondo, a ritirarsi sempre più nell’ordine astratto e smaterializzato della pagina scritta.

mercoledì 22 aprile 2009

italo calvino 5 - eremita a Parigi

Quinto estratto dalla mia tesi di laurea.
I capitoli precedenti:
0. introduzione
1. la fine dell'impegno (1974-1985)
2. la belle époque inaspettata
3. Pavese se ne va
4. Vittorini e l'utopia


* * *

La produzione di Calvino, negli anni fra il 1968 e il 1973, è caratterizzata da un’apparente presa di distanza rispetto all’attualità, specialmente italiana, tanto da far scrivere a Gian Carlo Ferretti che

c’è quasi un atteggiamento di estraneità, da parte di Calvino, verso i molteplici e rilevanti avvenimenti di questi anni (il ‘68, piazza Fontana e la strategia della tensione, eccetera): il trasferimento a Parigi nel 1964 (sia pur con frequenti venute in Italia) e la conseguente distanza fisica se ne può considerare forse più un effetto che una causa.

Lo stesso Ferretti parla, a proposito della “produzione giornalistico-saggistica sostanzialmente compresa tra il dopo-‘56 e i primi anni sessanta”, di una “tendenziale rinuncia a un rapporto sempre più precario e improduttivo con la realtà”.
Abbiamo visto nel capitolo precedente come il problema fosse invece quello di trovare una nuova chiave di lettura per la realtà, da sostituire agli strumenti ormai obsoleti dello storicismo hegeliano-marxista, e come Calvino, intorno alla metà degli anni ‘60, avesse cominciato a orientare tale ricerca verso le aree più moderne e innovative che il panorama culturale contemporaneo gli offriva (semiotica, strutturalismo, teorie scientifiche e filosofiche).
Come nota Mario Barenghi, anche se tra fine anni ‘60 e inizio anni ‘70 “la militanza culturale vera e propria si è palesemente diradata”, quello di Calvino “eremita a Parigi” non è “anacoretismo autentico, bensì [...] aggiustamento delle distanze. [...] Calvino [...] s’interroga sulla giusta distanza da assumere rispetto all’attualità storica, sul «ritmo» della sua interazione con gli avvenimenti pubblici”. Sono insomma anni in cui la sua attività di critico, perso il ritmo febbrile che aveva mantenuto fino alla metà degli anni ‘60, si esercita soprattutto sotto forma di studio e approfondimento teorico.
L’importante intervista rilasciata a Ferdinando Camon nel 1973 disegna il ritratto di un Calvino che asseconda “una vocazione di topo di biblioteca che prima non avev[a] mai potuto seguire”:

Non che sia diminuito il mio interesse per quello che succede, ma non sento più la spinta ad esserci in mezzo in prima persona. È soprattutto per via del fatto che non sono più giovane, si capisce. [...] Forse è solo un processo del metabolismo, una cosa che viene con l’età, ero stato giovane a lungo, forse troppo, tutt’a un tratto ho sentito che dovevo cominciare la vecchiaia, sì, proprio la vecchiaia, sperando magari d’allungare la vecchiaia cominciandola prima.

Ma subito dopo esprime il desiderio di dar vita a una rivista che gli permetta di “ritrovare le funzioni vere d’un rapporto col pubblico”, con

molte rubriche che esemplifichino strategie narrative, tipi di personaggi, modi di lettura, istituzioni stilistiche, funzioni poetico-antropologiche, ma tutto attraverso cose divertenti da leggere. Insomma un tipo un tipo di ricerca fatto con gli strumenti della divulgazione. [...] Io credo che spiegando queste cose agli altri forse riusciremmo a capirle anche noi. Insomma a me piacerebbe un rapporto così con un pubblico nuovo.

E, poco più avanti, ricordando l’esperienza vittoriniana del “Politecnico”, commenta: “di quel periodo lì m’è rimasto il senso d’un bisogno collettivo a cui rispondere” e polemizza con la “cultura della negazione” che gli sembra stia prendendo piede anche nella Sinistra.
Anche di un’opera apparentemente astratta e disimpegnata come Le città invisibili (che Camon aveva definito “un libro che testimonia la caduta e la sfiducia, per sempre, verso ogni futuro sociale, verso ogni ordine per cui lottare”), Calvino rivendica la continuità con la sua produzione “impegnata”:

È un libro in cui ci s’interroga sulla città (sulla società) con la coscienza della gravità della situazione, gravità che sarebbe criminale passare sottogamba, e con una continua ostinazione a veder chiaro, a non accontentarsi di alcuna immagine stabilita, a ricominciare il discorso da capo.

Insomma, come il San Girolamo del Castello dei destini incrociati, che ha sempre presente, sullo sfondo, la città con “le luci alle finestre, il vento [che] porta a ondate la musica delle feste”, così anche l’“eremita” Calvino non perde mai di vista la realtà contemporanea, anche se la guarda ormai non più dall’interno, ma da una distanza destinata man mano a crescere.

sabato 21 marzo 2009

italo calvino 4 - Vittorini e l'utopia

Pavese e Vittorini erano stati i due scrittori italiani più influenti per la giovinezza di Calvino.
I loro libri (Lavorare stanca, La casa in collina, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, l'antologia Americana) erano stati i testi fondanti della sua generazione, e lui stesso si era trovato a lavorare fianco a fianco con loro all'Einaudi per anni.
Gli anni Sessanta vedono un progressivo distacco di Calvino da entrambi. Di Pavese abbiamo detto la volta scorsa. Congedandosi da Vittorini, Calvino si congeda anche da molte delle idee che avevano segnato la sua gioventù: la fiducia nel ruolo sociale e politico dell'intellettuale, nella sua capacità di progettare una società nuova e di accompagnarne la nascita, la razionalità illuministica, l'umanesimo.
Di Vittorini, Calvino cerca di salvare almeno l'utopia, quell'utopia che sarà la cifra principale del suo capolavoro degli anni Settanta: Le città invisibili.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata / Pavese se ne va.

* * *

Il saggio del ‘67 Vittorini: progettazione e letteratura rappresenta, alla vigilia del trasferimento a Parigi, quasi un congedo da un intellettuale che era stato a lungo un compagno di strada e la cui esperienza letteraria ed esistenziale si era più volte incrociata con la sua.
Nel definire le caratteristiche salienti del Vittorini saggista e le categorie di pensiero che lo guidavano, Calvino sembra continuamente sforzarsi di tracciare paralleli e differenze con quella che era ed era stata la sua propria attività. La sua opera, ad esempio, viene caratterizzata soprattutto da un’istanza di “progettazione”, che si esprime sia nella sua continua attenzione al presente, sia nel suo rifiutarsi di fermarsi sulle posizioni via via raggiunte. Lo scopo di Vittorini è

contestare le nozioni abitudinarie siano esse percettive o linguistiche o concettuali [...] stabilendo il modo di una nuova percezione, [ma] non lasciarsi mai prendere fino in fondo dal meccanismo dell’astrazione mentale.

Sono posizioni sicuramente molto vicine a quelle di Calvino, che alla “passione ordinatrice e catalogatrice” affiancava sempre la riluttanza a lasciarsi assoggettare da un particolare metodo o punto di vista. Anche Calvino lo ammette quando scrive:

Spero di non stare forzando le linee del progetto vittoriniano per avvicinarle al punto in cui oggi mi accade di trovarmi, cioè per identificare il suo metodo con quello del modello costruito per via deduttiva e che ha valore d’ipotesi operativa fino a quando non viene smentito sperimentalmente.

Al contempo, però, emergono evidenti le differenze, ad esempio tra l’umanesimo di Vittorini e l’aspirazione di Calvino a “spostarsi verso una conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita”, o tra la fiducia incondizionata di Vittorini nel progresso e nella tecnologia e il sottile scetticismo che Calvino comincia a nutrire nei confronti della società contemporanea (“la sempre più odiata storia contemporanea” di cui parlava Fortini [1]). Se Vittorini “crede che il mondo esiste nella sua ricchezza sensibile e fruibilità o intollerabilità immediate [...], crede nella conoscibilità del mondo [...] e crede nel cambiamento del mondo attraverso la pratica”, nelle pagine calviniane la distanza tra modelli logici e mondo sensibile si farà sempre più marcata, fin quasi a identificare nei primi l’unica realtà conoscibile e nel secondo il caos, il disordine, l’entropia, e a smarrire la fiducia che l’intellettuale possa davvero agire nella politica e nella società.
Di certo, un’esigenza di Vittorini che Calvino sentiva molto vicina a sé è quella di tenere sempre agganciati il momento della contestazione e quello dell’affermazione, ossia di non ridurre la letteratura a una pura e semplice “negazione” (si pensi ad esempio a certa neoavanguardia), ma di tenere aperta la strada per proporre un “valore letterario affermativo”. Come si legge in uno scritto del ‘63, indirizzato ad Angelo Guglielmi, che aveva contestato le posizioni espresse da Calvino nella Sfida al labirinto:

A me, tutte le riduzioni a zero mi interessano e rallegrano per vedere cosa ci sarà dopo lo zero, cioè come riprenderà il discorso [...]. Mi vuoi convincere [...] che la realtà non ha senso? Io ti seguo, contentissimo, fino alle ultime conseguenze. Ma la mia contentezza è perché già penso che, arrivato all’estremo di questa abrasione della soggettività, l’indomani mattina potrò mettermi [...] a re-inventare una prospettiva di significati.

Anche molti dei punti di riferimento del loro discorso critico degli anni ‘60 erano stati gli stessi (Robbe-Grillet, Butor, Uwe Johnson, etc.). In più, nell’individuare i possibili sviluppi delle posizioni vittoriniane, Calvino enumera proprio gli autori che stavano prendendo importanza fra i suoi propri modelli: dopo aver parlato dei legami di Vittorini con la cultura francese e della sua opposizione all’area “postsurrealista” rappresentata da Bataille o Blanchot, prosegue: “eppure, [...] non è detto che non si possa derivare dal surrealismo una visione del mondo simile a quella cui Vittorini tende. E questo è provato da Raymond Queneau”.
E, poco più avanti, cercando di delineare la figura di un intellettuale che potesse essere “l’interlocutore ideale di [...] Vittorini”, ne individua il modello in Roland Barthes: “orecchio attento a ricevere dai testi letterari l’informazione più sottile e umbratile, e abito mentale rigoroso nel sottomettere la complessità del reale a un metodo semplificatore e razionalizzatore: questi potrebbero essere - come in Roland Barthes - i connotati di un nuovo tipo d’intellettuale”.
Insomma, proprio alle soglie di un periodo in cui la lezione vittoriniana di impegno e combattività andrà pian piano sfumando, Calvino cerca di trarre dalla sua opera un consuntivo e di estrapolarne le linee di una nuova poetica.
Ciò che di Vittorini può restare come testamento è “il primato dell’esperienza e dell’immaginazione sull’assolutizzazione ontologica o gnoseologica o moralistica o estetistica: poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazione. Qui sta il senso di un lavoro che tende a muoversi dalla profezia al progetto, senza che la sua forza visionaria e allegorica si perda”.
Non a caso, uno degli ultimi interventi calviniani su Vittorini sarà un pezzo del ‘70 sulle Città del mondo, che mette in risalto proprio la profonda componente utopica che sta alla base di tutta l’opera vittoriniana e che non si può non avvicinare a quella che Calvino coltiverà nelle Città invisibili.

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[1] Cfr. Ritorno al Calvino critico e giornalista, “Corriere della Sera”, 10 aprile 1989, pag. 3. Si tratta di una recensione a Le capre di Bikini di Gian Carlo Ferretti, in cui Fortini, con l’acutezza del vecchio avversario ideologico, avverte nell’opera saggistica di Calvino il progressivo perdersi di quell’ “attrito” con il reale che all’inizio ne costituiva il nerbo: “[nella] prima parte della sua opera, il reale gli fa resistenza [...]. Ove quella “sfida” decada, Calvino splendidamente decade”.

martedì 10 marzo 2009

italo calvino 3 - Pavese se ne va

Terzo estratto della tesi su Calvino. Ancora sul periodo di passaggio fra l'impegno degli anni 1945-1955 e la crisi della fine del decennio.
Uno dei segni del mutamento in corso in Calvino è il progressivo allontanamento dalla figura di Pavese, che era stato uno dei numi tutelari della sua prima produzione saggistica, insieme a Vittorini, Hemingway e agli amati classici dell'Ottocento (Stendhal, Stevenson, Cechov, Tolstoj).
Il Calvino giovane vedeva in Pavese l'archetipo del duro, del lavoratore, dello scrittore proteso a una sua inflessibile missione morale, e non vedeva - o si rifiutava di vedere - la parte oscura della sua personalità.
Ora la figura di Pavese comincia a sfocarsi, ad allontanarsi nel passato, fino a diventare tout court il simbolo di un'epoca ormai conclusa.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata.

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Nel 1956, rispondendo a un’inchiesta del “Caffè”, Calvino indicava in Pavese “il più importante, complesso, denso scrittore italiano del nostro tempo. Qualsiasi problema ci si ponga, non si può non rifarsi a lui”. Ancora nel 1959, rievocandone la figura, sottolineava il suo valore di modello e letterario e umano, leggendone anche gli aspetti negativi (le tendenze autodistruttive, il suicidio) come “rigoroso e tragico approfondimento” del suo esempio morale.
I primi segni dell’appannamento della figura di Pavese si avvertono in concomitanza con l’inizio degli anni ‘60, ossia di quel “cambio d’epoca” che, come abbiamo visto, portò Calvino a una radicale revisione dei propri punti di riferimento letterari e ideologici. Nel 1960 escono un’intervista di Carlo Bo, in cui Calvino parla a lungo anche di Pavese, e il saggio Pavese: essere e fare, commemorazione dello scrittore a dieci anni dalla morte.
L’intervista di Bo si apre proprio con una domanda relativa a ciò che resta dell’opera pavesiana e ciò che di essa sembra invece superato: Calvino risponde che

esiste già un’ “epoca di Pavese”, con un suo volto ben preciso, ed è quel ventennio ‘30-‘50 che solo ora ci appare con una fisionomia unitaria [...]. Questo già basta ad allontanare Pavese nel passato, ma anche ad affermarne il valore in una dimensione di cui prima non tenevamo abbastanza conto: di autore di un affresco del suo tempo come non ne esistono altri. [...] Quante cose proprio per essere lontane e oggi quasi incomprensibili, non ci si rivelano piene d’un’affascinante forza poetica! [...] Ma tutto è così chiaro, doloroso e lontano, come chiaro, doloroso e lontano è Leopardi.

Non si può non misurare la distanza con le affermazioni di soli quattro anni prima: lo scrittore a cui “non ci si può non rifare” è diventato uno scrittore già leggibile in chiave storica e quindi relegato in un ambito cronologico ormai conchiuso. Anche il suo esempio, letterario e umano, si rivela improponibile, di fronte a una realtà profondamente mutata:

La via di Pavese non ha avuto seguito nella letteratura italiana. [...] Pavese è tornato a essere “la voce più isolata della poesia italiana” come si leggeva sulla fascetta d’una vecchia edizione di Lavorare stanca” [...].
A Pavese mi lega la comunanza d’un gusto di stile poetico e morale, [...] ma nell’opera, in dieci anni, mi sono allontanato da quel clima.

E, in maniera anche più esplicita, nella Sfida al labirinto:

Se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi [quelli della realtà industriale, del contrasto città-campagna etc.] come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti [...] ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa.

Anche Essere e fare, nonostante lo sforzo di ribadire il valore letterario e umano di Pavese, finisce per confinarlo in una dimensione storica ormai definita e quindi per allontanarlo dalla realtà contemporanea:

Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia. Una stagione di cui la morte dello scrittore piemontese pare segnare un limite cronologico. Difatti, dobbiamo dire che in questi dieci anni, se la fortuna di Pavese ha continuato ad allargarsi, le possibilità d’influsso della sua lezione sulla letteratura contemporanea paiono essersi rapidamente ristrette.

“Integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia” è esattamente lo scopo del Calvino dei primi anni. Riconoscere tale progetto come facente parte di una stagione ormai cronologicamente lontana ha il senso di un’acquisizione di coscienza: i tempi sono cambiati e la fiducia, rivelatasi semplicistica, nella possibilità di un’azione diretta degli intellettuali sulla politica cederà sempre più il passo a un’inquieta esplorazione di territori letterari e culturali, a quell’attitudine di perplessità sistematica che d’ora in poi segnerà l’opera di Calvino.
[...]
L’ultimo intervento di un certo impegno sull’opera pavesiana è la cura dell’edizione dell’intero corpus poetico, che uscirà presso Einaudi nel ‘62.
[...]
Al 1965 risale uno scritto su La luna e i falò (Pavese e i sacrifici umani, “Revue des études italiennes”, avril-juin 1966; ora in Saggi, Meridiani Mondadori, 1995, pp. 1230-33). Le riserve sull’ultima opera pavesiana, accennate nel saggio del ‘60, vengono qui esplicitate: il romanzo gli sembra fin troppo “fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici, di enunciazioni sentenziose”, privo di quell’allusività e reticenza che erano il fascino della prosa di Pavese. Ma la maggior novità sta nel concentrare l’analisi sul nucleo mitico, antropologico attorno a cui l’opera ruota (non che tale aspetto fosse assente nei saggi precedenti, ma qui esso diventa il nodo centrale della lettura critica): il contrasto e insieme la compresenza della “storia rivoluzionaria” (la guerra, la Resistenza) e dell’ “antistoria mitico-rituale” (i “falò” del titolo). Qui sta forse il nocciolo segreto e irrisolto del romanzo:

Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, [...] come quando tutto è già inteso [...]. Non c’era nulla di inteso, invece, il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo [...].
L’uomo che è tornato al paese dopo la guerra registra immagini, segue un filo invisibile d’analogie. I segni della storia [...] e i segni del rito [...] hanno perso significato nella labile memoria dei contemporanei.

Siamo ormai lontanissimi dal Pavese tutto “attaccamento appassionato alla vita” di vent’anni prima, come anche dal Pavese in bilico tra ermetismo ed engagement di Natura e storia nel romanzo; si inizia invece a intravvedere il Calvino che di lì a poco comincerà a interessarsi della “critica archetipica” di Frye e dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss.
L’anno seguente, i risvolti di copertina all’edizione delle Lettere sanciranno definitivamente la distanza storica del Pavese uomo e scrittore:

Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia insoddisfatta e nevrotica degli anni ‘60. [...] Il breve 1950 di Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.

venerdì 6 marzo 2009

italo calvino 2 - la belle epoque inaspettata


Un altro estratto dalla mia tesi di laurea. Affronto un periodo cruciale, quello tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.
Calvino veniva da una famiglia di idee socialiste e antifasciste. Da giovane aveva abbracciato posizioni ingenuamente anarchicheggianti, ma dopo l'esperienza partigiana si era iscritto al Partito Comunista; per circa dieci anni, la sua produzione saggistica e critica mostra una sostanziale adesione all'ideologia del Partito, sebbene con parecchi spunti originali che rivelano già una certa indipendenza di pensiero.
Con la morte di Stalin (1953) e il XX Congresso del PCUS (1956), in cui Kruscev denunciò i crimini staliniani, Calvino fu tra gli intellettuali che spinsero verso un'apertura democratica del PCI e un suo sganciamento dall'URSS. Le speranze si infransero contro la brutale repressione della rivolta ungherese del '56. Deluso dalla posizione dei dirigenti comunisti italiani, che appoggiarono in tutto e per tutto l'operato della Russia, Calvino lasciò il partito.
Ma la crisi non era solo di natura politica: il boom economico stava mutando rapidamente il volto del paese, la stessa cultura italiana stava cambiando, con l'arrivo di nuove istanze culturali sconosciute all'Italia chiusa e provinciale degli anni Cinquanta.
Per Calvino fu l'inizio di un periodo di profondo ripensamento delle proprie idee, o meglio di un'intera visione del mondo che fino ad allora lo aveva guidato.


* * *

In un articolo comparso nel 1983 sulla “Repubblica”, Calvino, rievocando il clima letterario tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, scriveva:

La mia ottica particolare [...] è quella di un osservatore esterno, che allora pur appartenendo a tutti gli effetti alla vituperata “letteratura degli Anni Cinquanta” si rendeva conto che sulla scena della letteratura mondiale succedevano tante cose più stimolanti da cui la speciale angolazione del nostro discorso critico ci tagliava fuori. [...]
Chi era come me entrato nel modo letterario in un altro momento che si voleva di rottura, il ‘45, aveva potuto seguire anno per anno l’assestamento di quella spinta, in una formula [...] nata dalla confluenza della migliore civiltà letteraria dei nostri anni Trenta (quella della rivista “Solaria”) e della tradizione “morale e civile” dello storicismo idealista e gramsciano. [...] Ma intanto già alla fine di quel decennio un tale quadro culturale risultava assai stretto, dato il moltiplicarsi dell’informazione sulle culture straniere e dato che con la fine della “guerra fredda” qualcosa era cambiato in quella preminenza della politica su ogni altro discorso, che aveva caratterizzato l’atmosfera di quell’epoca.


Il brano sintetizza assai bene ciò che gli anni Sessanta rappresentarono per Calvino: un periodo di aggiornamento e di revisione delle proprie posizioni sia politiche sia letterarie (processo che, come abbiamo visto, era cominciato già negli anni immediatamente successivi alle dimissioni dal PCI).
“Aggiornamento”, però, significò da una parte impegno nella realtà contemporanea e nel dibattito culturale (sono questi gli anni di maggior fervore del “Menabò”), dall’altra una progressiva messa in crisi delle categorie di pensiero che fino ad allora avevano guidato la sua attività di intellettuale: Calvino si trova costretto a riconoscere che le coordinate storiche e ideologiche su cui si era svolta la sua prima formazione risultavano datate e inadatte, appartenevano a un’epoca ormai conclusa.
Gli scritti di questi anni sono la testimonianza del suo sforzo per tenersi al passo con la realtà contemporanea, mantenendo però fede agli strumenti dello storicismo e della dialettica marxista (non a caso uno di questi saggi si intitola L’antitesi operaia); ma si fa sempre più forte un senso di inadeguatezza:

Siamo entrati nella fase dell’industrializzazione totale e dell’automazione. [...] Ci siamo entrati molto prima d’avere un ordinamento razionale all’altezza della situazione [...]. La cultura in questa situazione così complessa e cangiante si dispone su tanti piani che la critica storicistica, lineare e semplificatrice, non basta più e deve chiedere il soccorso degli strumenti d’indagine stratigrafica e microscopica dell’etnografo e del sociologo.

L’impegno di questi anni sta proprio nel cercare di portare i propri strumenti d’indagine del reale “al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco”, di elaborare formule e modelli sempre più dettagliati e capaci di tener testa alle sfide che una realtà sociale in profondo mutamento poneva agli intellettuali.
La consapevolezza che con la fine degli anni ‘50 una fase storica è giunta al termine è implicita anche nella definizione di belle époque che Calvino dà degli anni ‘60, contrapponendoli così a quelli, ben più drammatici e ricchi di tensione, in cui egli stesso aveva iniziato a scrivere.
Parallelamente al cambiamento storico, Calvino si accorge che una nuova leva di intellettuali, molto diversa dalla sua, si sta affacciando sulla scena culturale italiana e internazionale:

La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un’importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante altre cose. Ma questa passione civile ha dato un’ossatura alla nostra formazione culturale [...]. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere più superficiali, anzi.

Quasi le stesse parole in una conferenza tenuta a Torino due anni dopo (I beatniks e il sistema): “La nostra generazione, la generazione che si è affacciata alla vita pubblica nel dopoguerra, è stata caratterizzata [...] dal sapere bene quello che voleva, dal preferire le idee ben definite, dal porsi problemi da classe dirigente”.
Ma, al momento di tracciare un bilancio, trova che i valori assorbiti dalla sua generazione nell’esperienza partigiana e che essa aveva cercato di instillare nella vita sociale si scontrano con una realtà ben diversa:

Alla spinta del consumo culturale sempre più forte fa da corrispettivo una sempre più marcata immobilità creativa; la società della produzione di massa e delle prospettive di benessere può cominciare a rivelarsi una trappola anche per noi; la tensione morale che volevamo salvare stagna nella palude dei compromessi quotidiani; [...] gli uomini dell’opposizione rivoluzionaria s’accorgono che l’antitesi che propongono è ancora parziale, [...] che la linea divisoria tra ciò che combattiamo e ciò che auspichiamo è sempre più frastagliata e incerta.

Il progetto di fare dello scrittore un “ingegnere delle anime”, capace di costruire una nuova società, deve fare i conti con una realtà sempre più difficile da padroneggiare. “Sarà questa - scriveva Mario Barenghi - la scommessa perduta della generazione di Calvino: fondere la coscienza del negativo, eredità della cultura precedente, con un rinnovato impulso all’iniziativa e all’intelligenza storica, sullo slancio di un’irripetibile esperienza vissuta”.
Scrivendo a Goffredo Parise, nel 1964, Calvino paragonava la stagione letteraria dell’immediato dopoguerra (quella che, proprio nel ‘64, rievocava anche nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno) con la situazione attuale: “Perdio, che fiato avevamo da giovani! Forza di trasfigurazione, ricchezza, libertà, coraggio, cattiveria, insomma poesia. Come ci ha tarpato le ali (a me, a te, a tutti) il trionfo del verismo romano-piccoloborghese su tutta la letteratura italiana del dopoguerra!”.
Calvino finirà per rendersi conto non solo che la sua generazione “si è ritrovata vecchia da un momento all’altro”, ma che “la nuova generazione di giovani apre gli occhi [...] come se questo labirinto che abbiamo visto chiudersi pezzo per pezzo intorno a noi [...] fosse qualcosa che c’è sempre stato”: “il nuovo individualismo approda a una perdita completa dell’individuo nel mare delle cose, [...] alla perdita dell’opposizione dialettica tra soggetto e oggetto”.
Il pericolo maggiore di questa nuova realtà è insomma una “generale eclisse del senso della storia”: “ciò che è messo in discussione è l’idea di una storia che attraverso le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegno chiaro di progresso”. È in definitiva un’eclisse dello storicismo e della dialettica di ascendenza hegeliana e marxista che erano stati l’humus della sua prima formazione e che saranno costretti man mano a cedere il passo a strumenti di indagine sempre più diversificati (semiologia, strutturalismo, etnologia, etc.).

venerdì 27 febbraio 2009

italo calvino (1) - la fine dell'impegno


E cominciamo con Calvino.
Cominciamo dalla fine: questo è il primo paragrafo dell'ultimo capitolo, quello in cui analizzavo il Calvino degli ultimi dieci anni, da metà anni Settanta fino alla morte, nel 1985.
Comincio da qui perché mi pare che molto di ciò che Calvino scriveva allora, venticinque o trent'anni fa, si sia rivelato, al di là di qualunque retorica, profetico.

Capitolo Quarto
La biblioteca esplosa (1974-1985)

IV. 1. Letteratura e politica: gli anni della “non identificazione”

In un articolo comparso sul “Corriere della Sera” del 23 settembre 1979 (Del prendere posizione), Calvino scriveva:

Sempre più spesso m’avviene di non saper prendere posizione di fronte a problemi che dividono l’opinione pubblica. In molti casi sento che le mie conoscenze dei dati di fatto sono insufficienti per fissare il mio giudizio[...]. Vorrà dire che i nomi e gli schemi con cui ero andato imparando a classificare i fatti, ora designano fatti diversi come qualità e sostanza, irriducibili a quegli schemi? Sarà segno che il mondo in cui vivo non è più un mondo in cui io possa - non dico influire: queste illusioni le ho perse da un pezzo - almeno riconoscere il mio posto? [...]
Per quanto cerchi di rappresentarmi i vantaggi, dal rifiuto dei tempi in cui vivo non riesco a spremere alcuna soddisfazione. Abituato a definirmi in relazione al discorso degli altri, [...] da tempo non riesco a recuperare che brandelli di conversazione intellegibile affioranti da un mare di rumore indistinto.

Negli anni dal ‘74 in poi, Calvino ritorna a scrivere sui quotidiani (prima il “Corriere della Sera”, poi, dal 1979, “la Repubblica”) e torna ad occuparsi, almeno per quanto riguarda gli articoli del “Corriere”, anche di fatti di cronaca e di attualità politica nazionale e internazionale. Sembrerebbe un riaffacciarsi del Calvino “impegnato”, dopo la parentesi di assenza dall’attualità che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta: ma l’analisi dei suoi scritti di questi anni viene subito a confutare quest’ipotesi.
Nella prima metà degli anni Sessanta Calvino, di fronte alla sempre crescente complessità di un mondo che rifiutava di farsi dominare dalla ragione, aveva tentato affannosamente di salvare uno spazio di intervento per l’intellettuale o almeno una possibilità di cercare ancora una via d’uscita dal “labirinto”; fra il ‘65 e la metà degli anni Settanta si era rivolto a metodi di indagine “interni” all’oggetto letterario (semiologia, strutturalismo, critica “antropologica” e “archetipica”), nella speranza che essi gli fornissero uno spiraglio verso il “fuori” (la società, la storia); ora, anche le residue possibilità che la letteratura potesse fornire un progetto o almeno una chiave di lettura per la realtà sembrano svanite, sostituite da un pessimismo che si farà via via più tendente all’apocalittico e al catastrofico.
Le dichiarazioni sulla necessità di continuare a cercare di “rendere più umano e più abitabile il mondo in cui viviamo” e sulla sua fiducia nelle capacità di “immaginazione” e di “coraggio” della società italiana si alternano ad altre, sempre più sfiduciate, sulla crisi irreversibile di un “principio di razionalità e di progresso” di origine illuministica e sulla mancanza di “attendibili modelli alternativi” (cfr. Con gli strumenti dell’ironia, “Avanti!”, 15-16 febbraio 1981 e Italo Calvino, classique romantique, “Le Monde”, 16 décembre 1979).
Se in questi anni Calvino interviene su fatti d’attualità (le stragi “nere”, il caso Moro, le Brigate Rosse, il Watergate, il delitto del Circeo, la corsa agli armamenti, la legge sull’aborto), lo fa per puro senso di responsabilità civile, in quanto cittadino che, scrivendo sui giornali, può esprimere la sua voce in maniera pubblica (“se scriviamo sui giornali è perché lo spazio in cui la parola può operare non si chiuda”), ma la possibilità che l’intellettuale possa avere un effettivo peso nella politica e nella storia sembra appartenere definitivamente al passato.
Nella conferenza del ‘76 dal titolo Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, si legge:

Negli ultimi anni [...] mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi affrontando queste due problematiche provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere.

L’analisi della vita culturale italiana dagli anni Sessanta in poi approda alla constatazione che “l’idea dell’uomo come soggetto della storia è finita. [...] Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in discussione”. La contestazione letteraria e politica della neoavanguardia non è riuscita a recuperare un’istanza propositiva, al di là della pura e semplice “negazione”.
Qual è dunque il posto che la letteratura può avere nel contesto di una società? Ciò che essa può offrire di specifico è la “capacità d’imporre modelli di linguaggio, d’immaginazione, di visione, di lavoro mentale”, mirare alla “costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo”.
Non si può fare a meno di notare quanto si sia ristretto il campo d’azione dell’intellettuale: l’unico ordine possibile è quello interno alla letteratura, un ordine astratto, mentale, senza più speranza di influire direttamente sul corso degli eventi. L’utopia si è definitivamente rinchiusa in un “mondo scritto” irrimediabilmente “altro” rispetto al disordine e all’entropia del “mondo non scritto”.
Questa divaricazione tra politica e letteratura finisce per essere una delle cifre dominanti della produzione calviniana degli ultimi anni: la sfiducia nella politica come attività “totalizzante”, che si era fatta sempre più marcata dal ‘56 in poi, ora si traduce nella coscienza che “le trasformazioni vere della società si preparano in altre sedi da quelle della politica. [...] La politica, anche le cosiddette rivoluzioni vengono dopo, a sancire, o a mistificare quello che è già in atto” (ma si già pensi alle affermazioni nell’intervista con Camon circa la sua sfiducia nella Storia e nei sistemi che pretendano di dominare la complessità del reale). Parlando della sua uscita dal PCI, la descrive come un progressivo abbandonare ogni ideologia prestabilita e un rendersi conto che “fatti e persone e problemi [...] andavano giudicati uno per uno [...]. Insomma, avevo capito che avrei dovuto fidarmi più dell’empirismo che corrispondeva al mio temperamento, che d’un rigore ideologico le cui regole era sempre qualcun altro a stabilire”. Anche per bocca del signor Palomar (cfr. ad esempio Il modello dei modelli) viene espressa l’idea di una morale che rinuncia a costringere la realtà in forme prestabilite e “preferisce tenere le proprie convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano”.
Se da una parte la politica non è capace di prevedere o progettare alcunché, dall’altra la letteratura non può capire altro che se stessa:

Nella mia gioventù [...] m’illudevo che mondo scritto e mondo non scritto si illuminassero a vicenda; che le esperienze di vita e le esperienze di lettura fossero in qualche modo complementari, e ad ogni passo avanti compiuto in un campo corrispondesse un passo avanti nell’altro. Oggi, posso dire che del mondo scritto conosco molto di più che una volta; all’interno dei libri, l’esperienza è sempre possibile, ma la sua portata non s’estende al di là del margine bianco della pagina. Invece, quello che succede nel mondo che mi circonda non finisce di sorprendermi, di spaventarmi, di disorientarmi.


L’atteggiamento di Calvino verso la realtà contemporanea si va sempre più caricando di pessimismo: “je m’attends toujours au pire. J’ai appris que, après le mal, très souvent vient le pire”, dichiarava nel ‘79 in un’intervista a “Le Monde”.
Una scorsa agli articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” mostra come la visione di Calvino inclinasse spesso verso un vero e proprio catastrofismo: il mondo gli appare “triste, inibito, depressivo”, la società gli sembra minacciare una “catastrofe [...]: quella di un lento impantanamento dove nulla può conservarsi e nulla crollare” e per definirla usa espressioni molto forti come “crollo”, “deserto”, “pestilenza”. “Deve essere ben chiaro - affermava nel ‘77 - che i prossimi quattrocento-cinquecento anni saranno i più duri della storia dell’umanità”.
Lo stesso pessimismo si applica alla visione della natura e dell’intero universo: un elenco di eventi naturali catastrofici (eruzioni, terremoti, alluvioni, siccità) gli serve a dimostrare che "il mondo è fragile, una rete di avvenimenti impercettibili e lentissimi che sono il solo campo in cui la capacità umana di guida e salvataggio può intervenire, ogni catastrofe è già successa da tempo quando ci si accorge che la terra trema, [...] non esiste movimento se non lento o lentissimo, [...] tutte le rivoluzioni sono già avvenute prima delle esplosioni spettacolari che segnano la loro data nella storia, ultimo atto spesso scontato e superfluo di ciò che da tempo è in marcia".
Si fa sempre più pressante l’idea che “l’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia” e che il mondo è “un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto” che nessun “modello mentale” potrà mai padroneggiare completamente. In Cominciare e finire, testo (poi scartato) che sarebbe dovuto entrare a far parte delle Lezioni americane, si cita esplicitamente il “secondo principio della termodinamica, della degradazione della materia in calore, della crescita dell’entropia, della morte termica dell’universo. La forza mitica di queste ipotesi scientifiche è tale che la nostra forma mentis ne è condizionata”. E si pensi, infine, al senso di sfacelo e di disfacimento che domina molte pagine del postumo Sotto il sole giaguaro (specialmente Il nome, il naso e Sapore sapere) o all’ossessione di una realtà brulicante, infinita, innumerevole che fa da sfondo alle osservazioni del signor Palomar (1).
Al Calvino scrittore resta solo la consapevolezza che “si scrive per tentare di sottrarre un frammento d’universo - non più grande della pagina che si scrive - alla degradazione generale”, mentre il Calvino degli articoli sul “Corriere” non può che fare appello “alla disciplina, alla fermezza, alla severità, più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria”.
Quando, nel ‘79 (in seguito al passaggio del “Corriere” dalla direzione di Ottone a quella di Di Bella), Calvino comincerà a scrivere sulla “Repubblica” dell’amico Scalfari, scompariranno quasi del tutto gli interventi sull’attualità e gli articoli di fondo, sostituiti da pezzi di terza pagina su temi letterari e da resoconti di mostre, esposizioni, viaggi, etc. (molti di questi scritti confluiranno poi in Collezione di sabbia).
Sta di fatto che ormai la distanza di Calvino dalla realtà contemporanea si era fatta incolmabile; in un’intervista con Daniele Del Giudice, parlando degli anni Settanta li definiva con l’espressione “non identificazione”:

Ci sono state molte cose in ballo, le ho vissute aperto agli sviluppi, ma sempre con riserva. [...]
Tra le Città invisibili ce n’è una su trampoli, e gli abitanti guardano dall’alto la propria assenza (2). Forse per capire chi sono devo osservare un punto nel quale potrei essere e non sto. [...] Se negli ultimi anni ho scritto perfino articoli di fondo sul “Corriere”, vuol dire che una parte di me, depositaria di una voce in tono grave e definita da Fortini “il padre nobile”, si tiene sempre presente. Non è che ne sia molto soddisfatto. Preferirei mandare in pensione questo padre nobile.


Il progetto giovanile di unire letteratura e società sembra ormai lontanissimo (“appartengo all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria. Tutta la mia vita è stata un riconoscere validità a cose cui avevo detto «no»”). Ciò che si salva è la profonda istanza morale che aveva sempre costituito la base della sua ricerca letteraria:

Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo individuale. Forse perché vengo da una famiglia di credo laico e scientifico intransigente [...]. Sottrarmi a quella morale, ai doveri del piccolo proprietario agricolo, mi ha fatto sentire in colpa. Il mio mondo fantastico mi sembrava non abbastanza importante per giustificarsi in sé. Ci voleva un quadro generale. [...] Scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere.

“All’epoca in cui ho cominciato a scrivere - dichiarava qualche anno più tardi - cioè nei primi anni Quaranta, c’era un’idea di morale che doveva dar forma allo stile, e questo è forse ciò che più mi è rimasto, di quel clima della letteratura italiana d’allora, attraverso tutta la distanza che ci separa”.

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(1) Ma già nel ‘73 il Castello dei destini incrociati si chiudeva con le apocalittiche parole di Macbeth: “Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro”.

(2) Si tratta della città di Bauci, che, come notava Claudio Milanini (cfr. L’utopia discontinua, Garzanti 1990, pag. 144), porta il nome del personaggio ovidiano che, nel libro VIII delle Metamorfosi, riceve insieme al marito Filemone la visita degli dei, venendo premiata per l’ospitalità dimostrata: anche secondo Cristina Benussi, non è casuale che questa città sia collocata esattamente al centro del libro (è la ventottesima delle 55 città descritte), quasi a sottolineare la centralità di questa “utopia dell’assenza”. Anche lo schema di carte della Taverna dei destini incrociati aveva al centro uno spazio vuoto; si pensi inoltre alle pagine delle Città invisibili in cui a Kublai sembra che tutta la conoscenza si riduca a nulla, a un tassello di legno della scacchiera.