venerdì 6 marzo 2009

italo calvino 2 - la belle epoque inaspettata


Un altro estratto dalla mia tesi di laurea. Affronto un periodo cruciale, quello tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.
Calvino veniva da una famiglia di idee socialiste e antifasciste. Da giovane aveva abbracciato posizioni ingenuamente anarchicheggianti, ma dopo l'esperienza partigiana si era iscritto al Partito Comunista; per circa dieci anni, la sua produzione saggistica e critica mostra una sostanziale adesione all'ideologia del Partito, sebbene con parecchi spunti originali che rivelano già una certa indipendenza di pensiero.
Con la morte di Stalin (1953) e il XX Congresso del PCUS (1956), in cui Kruscev denunciò i crimini staliniani, Calvino fu tra gli intellettuali che spinsero verso un'apertura democratica del PCI e un suo sganciamento dall'URSS. Le speranze si infransero contro la brutale repressione della rivolta ungherese del '56. Deluso dalla posizione dei dirigenti comunisti italiani, che appoggiarono in tutto e per tutto l'operato della Russia, Calvino lasciò il partito.
Ma la crisi non era solo di natura politica: il boom economico stava mutando rapidamente il volto del paese, la stessa cultura italiana stava cambiando, con l'arrivo di nuove istanze culturali sconosciute all'Italia chiusa e provinciale degli anni Cinquanta.
Per Calvino fu l'inizio di un periodo di profondo ripensamento delle proprie idee, o meglio di un'intera visione del mondo che fino ad allora lo aveva guidato.


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In un articolo comparso nel 1983 sulla “Repubblica”, Calvino, rievocando il clima letterario tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, scriveva:

La mia ottica particolare [...] è quella di un osservatore esterno, che allora pur appartenendo a tutti gli effetti alla vituperata “letteratura degli Anni Cinquanta” si rendeva conto che sulla scena della letteratura mondiale succedevano tante cose più stimolanti da cui la speciale angolazione del nostro discorso critico ci tagliava fuori. [...]
Chi era come me entrato nel modo letterario in un altro momento che si voleva di rottura, il ‘45, aveva potuto seguire anno per anno l’assestamento di quella spinta, in una formula [...] nata dalla confluenza della migliore civiltà letteraria dei nostri anni Trenta (quella della rivista “Solaria”) e della tradizione “morale e civile” dello storicismo idealista e gramsciano. [...] Ma intanto già alla fine di quel decennio un tale quadro culturale risultava assai stretto, dato il moltiplicarsi dell’informazione sulle culture straniere e dato che con la fine della “guerra fredda” qualcosa era cambiato in quella preminenza della politica su ogni altro discorso, che aveva caratterizzato l’atmosfera di quell’epoca.


Il brano sintetizza assai bene ciò che gli anni Sessanta rappresentarono per Calvino: un periodo di aggiornamento e di revisione delle proprie posizioni sia politiche sia letterarie (processo che, come abbiamo visto, era cominciato già negli anni immediatamente successivi alle dimissioni dal PCI).
“Aggiornamento”, però, significò da una parte impegno nella realtà contemporanea e nel dibattito culturale (sono questi gli anni di maggior fervore del “Menabò”), dall’altra una progressiva messa in crisi delle categorie di pensiero che fino ad allora avevano guidato la sua attività di intellettuale: Calvino si trova costretto a riconoscere che le coordinate storiche e ideologiche su cui si era svolta la sua prima formazione risultavano datate e inadatte, appartenevano a un’epoca ormai conclusa.
Gli scritti di questi anni sono la testimonianza del suo sforzo per tenersi al passo con la realtà contemporanea, mantenendo però fede agli strumenti dello storicismo e della dialettica marxista (non a caso uno di questi saggi si intitola L’antitesi operaia); ma si fa sempre più forte un senso di inadeguatezza:

Siamo entrati nella fase dell’industrializzazione totale e dell’automazione. [...] Ci siamo entrati molto prima d’avere un ordinamento razionale all’altezza della situazione [...]. La cultura in questa situazione così complessa e cangiante si dispone su tanti piani che la critica storicistica, lineare e semplificatrice, non basta più e deve chiedere il soccorso degli strumenti d’indagine stratigrafica e microscopica dell’etnografo e del sociologo.

L’impegno di questi anni sta proprio nel cercare di portare i propri strumenti d’indagine del reale “al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco”, di elaborare formule e modelli sempre più dettagliati e capaci di tener testa alle sfide che una realtà sociale in profondo mutamento poneva agli intellettuali.
La consapevolezza che con la fine degli anni ‘50 una fase storica è giunta al termine è implicita anche nella definizione di belle époque che Calvino dà degli anni ‘60, contrapponendoli così a quelli, ben più drammatici e ricchi di tensione, in cui egli stesso aveva iniziato a scrivere.
Parallelamente al cambiamento storico, Calvino si accorge che una nuova leva di intellettuali, molto diversa dalla sua, si sta affacciando sulla scena culturale italiana e internazionale:

La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un’importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante altre cose. Ma questa passione civile ha dato un’ossatura alla nostra formazione culturale [...]. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere più superficiali, anzi.

Quasi le stesse parole in una conferenza tenuta a Torino due anni dopo (I beatniks e il sistema): “La nostra generazione, la generazione che si è affacciata alla vita pubblica nel dopoguerra, è stata caratterizzata [...] dal sapere bene quello che voleva, dal preferire le idee ben definite, dal porsi problemi da classe dirigente”.
Ma, al momento di tracciare un bilancio, trova che i valori assorbiti dalla sua generazione nell’esperienza partigiana e che essa aveva cercato di instillare nella vita sociale si scontrano con una realtà ben diversa:

Alla spinta del consumo culturale sempre più forte fa da corrispettivo una sempre più marcata immobilità creativa; la società della produzione di massa e delle prospettive di benessere può cominciare a rivelarsi una trappola anche per noi; la tensione morale che volevamo salvare stagna nella palude dei compromessi quotidiani; [...] gli uomini dell’opposizione rivoluzionaria s’accorgono che l’antitesi che propongono è ancora parziale, [...] che la linea divisoria tra ciò che combattiamo e ciò che auspichiamo è sempre più frastagliata e incerta.

Il progetto di fare dello scrittore un “ingegnere delle anime”, capace di costruire una nuova società, deve fare i conti con una realtà sempre più difficile da padroneggiare. “Sarà questa - scriveva Mario Barenghi - la scommessa perduta della generazione di Calvino: fondere la coscienza del negativo, eredità della cultura precedente, con un rinnovato impulso all’iniziativa e all’intelligenza storica, sullo slancio di un’irripetibile esperienza vissuta”.
Scrivendo a Goffredo Parise, nel 1964, Calvino paragonava la stagione letteraria dell’immediato dopoguerra (quella che, proprio nel ‘64, rievocava anche nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno) con la situazione attuale: “Perdio, che fiato avevamo da giovani! Forza di trasfigurazione, ricchezza, libertà, coraggio, cattiveria, insomma poesia. Come ci ha tarpato le ali (a me, a te, a tutti) il trionfo del verismo romano-piccoloborghese su tutta la letteratura italiana del dopoguerra!”.
Calvino finirà per rendersi conto non solo che la sua generazione “si è ritrovata vecchia da un momento all’altro”, ma che “la nuova generazione di giovani apre gli occhi [...] come se questo labirinto che abbiamo visto chiudersi pezzo per pezzo intorno a noi [...] fosse qualcosa che c’è sempre stato”: “il nuovo individualismo approda a una perdita completa dell’individuo nel mare delle cose, [...] alla perdita dell’opposizione dialettica tra soggetto e oggetto”.
Il pericolo maggiore di questa nuova realtà è insomma una “generale eclisse del senso della storia”: “ciò che è messo in discussione è l’idea di una storia che attraverso le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegno chiaro di progresso”. È in definitiva un’eclisse dello storicismo e della dialettica di ascendenza hegeliana e marxista che erano stati l’humus della sua prima formazione e che saranno costretti man mano a cedere il passo a strumenti di indagine sempre più diversificati (semiologia, strutturalismo, etnologia, etc.).

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