mercoledì 2 aprile 2014

dalle vette




Leggo Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven di Charles Rosen (Adephi, 2013). Tomone di 600 pagine sulla genesi e l'evoluzione del classicismo viennese. Una di quelle robe che appassionano me e fungono da narcotico per gli altri. Comunque, libro geniale, senza mezzi termini.
A pagina 44, trovo questo brano:

La storia della musica, come quella di ogni arte, è spinosa proprio perché l'oggetto di interesse è l'eccezione, non la regola. Ciò vale anche per il singolo artista: a caratterizzarne lo “stile” personale non sono i procedimenti consueti, bensì gli esiti più riusciti e originali. Il che parrebbe, in ultima istanza, negare la possibilità stessa di una storia dell'arte: vi sarebbero soltanto singole opere, ciascuna delle quali autosufficiente e capace di definire un proprio canone. L'opera d'arte, ed è una contraddizione essenziale, non consente parafrasi né traduzione, eppure può essistere solo entro un linguaggio, il quale implica, come condizione necessaria, che parafrasi e traduzione siano possibili.

E più avanti (pp. 80-81):

Lo “stile anonimo” di un'epoca, i palazzi costruiti da architetti di poco conto, i libri interessanti per una sola stagione, la pittura che non va al di là della decorazione, tutto ciò si sedimenta poco alla volta [...]. Non che lo “stile anonimo” sia particolarmente tenace, ma ha un'immensa inerzia. Se guardiamo invece allo “stile” come a una forma integrata di espressione, alla portata solo degli artisti migliori, […] portar[lo] avanti, in quest'accezione, è un atto eroico quanto l'inventarlo. […] Le possibilità dell'arte sono infinite, ma non senza confini. Anche una rivoluzione stilistica è delimitata dalla natura del linguaggio in cui ha luogo e che poi trasformerà.

Le trovo osservazioni profondamente vere.
Se pensiamo al grande musical americano classico, vediamo i Cole Porter, i Gershwin, gli Irving Berlin, non le centinaia, migliaia di anonimi mestieranti. Nello swing, vediamo Basie, Goodman, Fletcher Henderson, non la miriade di umili band che non hanno lasciato tracce né hanno mai calcato i grandi palcoscenici (si legga L'era dello swing di Gunther Schuller, per farsene un'idea). Persino nella carriera dei grandi musicisti, focalizziamo i capolavori, gli once-in-a-lifetime, non la routine dei concerti, delle serate, dei viaggi, delle tournée massacranti.
Lo stesso vale per qualunque arte: i grandi capolavori del romanzo ottocentesco e i tanti libri dimenticati e finiti al macero; le opere sublimi del Rinascimento e le infinite, anonime pale d'altare disseminate nelle pievi e delle cappelle di campagna.
Forse questo è anche il motivo per cui il passato sembra sempre più bello del presente, per cui c'è sempre un laudator temporis acti pronto a intonare la trenodia dell'arte. Dalla lunga distanza, noi distinguiamo le vette, non le pianure e le depressioni. Riconosciamo i giganti e ignoriamo non solo i nani, ma anche gli uomini comuni.
E lo stesso ragionamento, in fondo, si può applicare alla nosta vita: dell'adolescenza, si ricordano i primi amori e le nottate con gli amici, si dimenticano l'inquietudine, l'angoscia, la libido dissipandi.
Forse è una condizione necessaria per continuare a vivere.

1 commento:

Daniele Barbieri ha detto...

Grande libro, che sarebbe ora di rileggere (almeno per me)!