La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte dal basso, dei "molti oppressi" contro i "pochi potenti", è vecchia come la storia dell'umanità e altrettanto varia e tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell'autorità sfidata, le rispettive coesioni e spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all'altra, l'abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L'immagine tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti.
Il fatto non può stupire. Un capo dev'essere efficiente: deve possedere forza morale e fisica, e l'oppressione, se spinta oltre un certo livello molto basso, deteriora l'una e l'altra. Per suscitare la collera e l'indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci: non certo i putsch né le "rivolte di palazzo"), occorre sì che l'oppressione esista, ma essa dev'essere di misura modesta, o condotta con scarsa efficienza.
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Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle minuscole [...], sono state guidate da personaggi che conoscevano bene l'oppressione, ma non sulla loro pelle.
Primo Levi, I sommersi e i salvati