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giovedì 13 agosto 2009

recensioni in pillole 25 - "Un altro mondo"

James Baldwin, Un altro mondo, Le Lettere 2004 (443 pp., € 16,50)

New York, fine degli anni '50. Rufus Scott è un batterista jazz, bello, sicuro di sé, stronzo quanto basta. Almeno finché non incontra Leona, appena arrivata dal Sud, con alle spalle una storia di alcoolismo e violenze familiari. Tra i due scoppierà un amore che porterà entrambi all'autodistruzione. Perché Rufus è nero, Leona è bianca. E questo, nell'America di quegli anni, vuol dire ancora molto.
Ma è solo l'inizio, le prime cento pagine su oltre quattrocento. Nel resto del romanzo i protagonisti sono gli amici di Rufus che, dopo il suo suicidio, si trovano a chiedersene le ragioni e, allo stesso tempo, ad affrontare se stessi: sua sorella Ida, bellissima e fiera, decisa a trovare nella musica il riscatto dall'emarginazione; ma soprattutto i bianchi: Vivaldo, scrittore in crisi, debole e irresoluto; Cass, altoborghese delusa dal proprio matrimonio; Eric, attore omosessuale, appena tornato in America dopo anni di autoesilio in Francia.
Baldwin adotta uno stile narrativo ricco di flashback e monologhi interiori, lento, circolare (quello che sembrava il protagonista muore a pag. 91, mentre uno dei principali coprotagonisti fa la sua comparsa a pag. 181, quasi a metà libro). Tallona i suoi personaggi nelle loro giornate e, soprattutto, nelle loro notti, indaga nei loro pensieri, nelle loro vite sbandate, li osserva vagabondare per il Village o per Harlem, parlare, fare l'amore (nel romanzo si fa molto sesso, sia etero sia omosessuale). E intanto disegna una New York sporca, cinica, solitaria. Tutti sono disperatamente soli, chi ama prima o poi è tradito o abbandonato; non soltanto tra i bianchi e i neri c'è un muro di pregiudizi e rancore, ma ognuno sembra vivere in "un altro mondo" (ma il titolo originale è ancora più preciso e pregnante: Another Country, un altro paese, con tutte le implicazioni politiche del caso).
Baldwin era nero, omosessuale, di sinistra (insomma, ce le aveva proprio tutte); iniziò il romanzo a New York a fine anni '40, ci lavorò per tutti gli anni '50, quando era già espatriato in Francia (e la Francia è una delle poche oasi di felicità in queste pagine) e lo terminò nel 1961 durante un soggiorno in Turchia.
Another Country è il suo sguardo di esule sull'America, duro, rabbioso e disperato. Che però si chiude con una nota - tenue, ambigua, ma significativa - di speranza. Forse, per qualcuno, l'America può essere ancora la terra promessa.

(Peccato per l'antiquata traduzione di Attilio Veraldi. I dialoghi, soprattutto, sono una vera piaga, fra improbabili arcaismi e goffi tentativi di rendere lo slang originale).