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lunedì 5 luglio 2010

recensioni in pillole 59 - "Invisible Man"

Ralph W. Ellison, Invisible Man, Vintage Books, 1990 (581 pp.)

Come si fa a recensire un capolavoro della letteratura afroamericana del Novecento? Anzi, della letteratura americana del Novecento? Anzi, della letteratura americana tout-court? (E mi fermo qui, ma potrei andare avanti).
Potrei dire che “Invisible Man” è un potente ritratto dell'America anni Trenta, vista attraverso gli occhi di un ragazzo nero che, pieno all'inizio di speranze, le perde tutte, una ad una, fino a ridursi a uno spettro vagante (il celeberrimo attacco: “I am an invisible man”).
Oppure potrei dire che è l'Odissea trasposta nella Harlem Reinassance.
Oppure potrei dire che il romanzo ha una quantità di letture simboliche, ma che le fonde tutte in una narrazione allo stesso tempo picaresca ed epica.
O che è una delle più profonde e geniali riflessioni sull'identità afroamericana mai prodotte.
In poche parole: il protagonista-narratore, del quale mai viene rivelato il nome, all'inizio studia in un college per neri dell'Alabama, esplicitamente modellato sul Tuskeegee Institute frequentato da Ellison stesso. Per lui, giovane ambizioso ma ingenuo, intriso delle teorie sociali di Booker T. Washington, il college è il primo gradino della scalata sociale.
Invece la scala non sarà ascendente, ma discendente: prima perderà il diploma, poi la posizione sociale, poi il nome, infine la stessa identità. Si renderà conto che nessuno lo vede per quel che è: qualcuno lo vede come la speranza della razza nera, qualcuno come un leader rivoluzionario, o come un traditore dei neri, o come una marionetta da manovrare, o come uno stallone da portarsi a letto, o come un delinquente. Ma nessuno lo vede come un uomo.
Finirà per richiudersi in una cantina di New York, illuminata da 1369 lampadine alimentate abusivamente, ad ascoltare ossessivamente Louis Armstrong.
“Invisible Man” è l'unico romanzo pubblicato in vita da Ralph W. Ellison (1914-1994), ma è bastato per consegnarlo alla storia. Uscì nel 1952 e vinse il premio National Book Award l'anno dopo: tanto per dire, tra i concorrenti c'era “Il vecchio e il mare” di Hemingway.
Ne esiste una traduzione italiana recente (Einaudi 2009, 24 €), che non ho letto e della quale non conosco la qualità: ma consiglio a chi può di leggerlo in inglese, perché la lingua di Ellison riesce a rendere in maniera inimitabile accenti e tic linguistici di ciascun personaggio.

giovedì 13 agosto 2009

recensioni in pillole 25 - "Un altro mondo"

James Baldwin, Un altro mondo, Le Lettere 2004 (443 pp., € 16,50)

New York, fine degli anni '50. Rufus Scott è un batterista jazz, bello, sicuro di sé, stronzo quanto basta. Almeno finché non incontra Leona, appena arrivata dal Sud, con alle spalle una storia di alcoolismo e violenze familiari. Tra i due scoppierà un amore che porterà entrambi all'autodistruzione. Perché Rufus è nero, Leona è bianca. E questo, nell'America di quegli anni, vuol dire ancora molto.
Ma è solo l'inizio, le prime cento pagine su oltre quattrocento. Nel resto del romanzo i protagonisti sono gli amici di Rufus che, dopo il suo suicidio, si trovano a chiedersene le ragioni e, allo stesso tempo, ad affrontare se stessi: sua sorella Ida, bellissima e fiera, decisa a trovare nella musica il riscatto dall'emarginazione; ma soprattutto i bianchi: Vivaldo, scrittore in crisi, debole e irresoluto; Cass, altoborghese delusa dal proprio matrimonio; Eric, attore omosessuale, appena tornato in America dopo anni di autoesilio in Francia.
Baldwin adotta uno stile narrativo ricco di flashback e monologhi interiori, lento, circolare (quello che sembrava il protagonista muore a pag. 91, mentre uno dei principali coprotagonisti fa la sua comparsa a pag. 181, quasi a metà libro). Tallona i suoi personaggi nelle loro giornate e, soprattutto, nelle loro notti, indaga nei loro pensieri, nelle loro vite sbandate, li osserva vagabondare per il Village o per Harlem, parlare, fare l'amore (nel romanzo si fa molto sesso, sia etero sia omosessuale). E intanto disegna una New York sporca, cinica, solitaria. Tutti sono disperatamente soli, chi ama prima o poi è tradito o abbandonato; non soltanto tra i bianchi e i neri c'è un muro di pregiudizi e rancore, ma ognuno sembra vivere in "un altro mondo" (ma il titolo originale è ancora più preciso e pregnante: Another Country, un altro paese, con tutte le implicazioni politiche del caso).
Baldwin era nero, omosessuale, di sinistra (insomma, ce le aveva proprio tutte); iniziò il romanzo a New York a fine anni '40, ci lavorò per tutti gli anni '50, quando era già espatriato in Francia (e la Francia è una delle poche oasi di felicità in queste pagine) e lo terminò nel 1961 durante un soggiorno in Turchia.
Another Country è il suo sguardo di esule sull'America, duro, rabbioso e disperato. Che però si chiude con una nota - tenue, ambigua, ma significativa - di speranza. Forse, per qualcuno, l'America può essere ancora la terra promessa.

(Peccato per l'antiquata traduzione di Attilio Veraldi. I dialoghi, soprattutto, sono una vera piaga, fra improbabili arcaismi e goffi tentativi di rendere lo slang originale).