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lunedì 10 agosto 2009

recensioni in pillole 24 - "La cretese"


Robinson Jeffers, La Cretese (dall'Ippolito di Euripide), Scheiwiller/All'insegna del pesce d'oro, 1967 (112 pp.)

Un'altra delle mie trouvailles. Un'edizione Scheiwiller in tiratura limitata (mille copie numerate, questa è la numero 800), pescata sugli scaffali di una libreria dell'usato.
Di Robinson Jeffers ho già parlato; qui dimostra tutta la sua cultura classica, tessendo una variazione sul mito di Fedra. La storia, trattata da Euripide, Seneca, Racine, D'Annunzio e infiniti altri, è ben nota: Ippolito, figlio di Teseo, è un giovane bellissimo ma altero, che ama solo la caccia e disprezza l'amore delle donne. Per punirlo, Afrodite fa nascere nella sua matrigna Fedra (la "Cretese" del titolo) una passione folle e illecita, che porterà entrambi alla rovina.
Jeffers rispetta il mito classico, pur concedendosi qualche licenza (elimina ad esempio la rivalità tra Afrodite e Artemide e disegna Ippolito come esplicitamente omofilo); costruisce una tragedia con tanto di coro (tre povere mendicanti), che rispetta le unità aristoteliche (tutto si svolge in poche ore, davanti alla reggia di Teseo) e mette in scena anche una teofania (Afrodite appare a metà e alla fine della rappresentazione). Echeggia modi e misure dell'esametro greco, pur in una maggior libertà metrica, e con qualche tocco di realismo. Mette in bocca alla cretese Fedra un'ironica descrizione dei Greci come "piccole tribù / Di [...] feroci assassini, che sanno soltanto odiare e uccidere. / E amano le tragedie! Noi Cretesi / Amiamo luce e risa...".
Soprattutto, centra tutta la tragedia sulla forza ineluttabile dell'amore, maledizione divina che travolge il cuore dell'uomo senza possibile resistenza. Anche Ippolito, fautore del libero arbitrio, soccombe alla terribile vendetta di Afrodite, che chiude la tragedia con il suo impassibile sorriso:

Non ci rammarichiamo troppo dei guai degli uomini.
In cielo ridiamo.
Camminiamo nell'olimpo e negli alti cieli, il fulmine latra ai nostri piedi come un cane:
Ciò che ci piace, facciamo. (
Sorride) Io sono il potere d'amore.
(
Pensosa sorride)
Nel futuro gli uomini diverranno così potenti
da aver controllo sui cieli e sulla terra,
Da capire le stelle e tutte le scienze -
Ma stiano in guardia. Qualcosa sta in agguato.
C'è sempre una lama tra i fiori. Oltre i fuochi sta sempre un leone.

domenica 5 luglio 2009

un eremita in california

Robinson Jeffers (Allegheny, Pennsylvania, 10 gennaio 1887 – Carmel, California, 20 gennaio 1962) è una figura singolare e, allo stesso tempo, esemplare nella poesia americana del Novecento.
Studiò in Europa e fu un profondo conoscitore della poesia greca e latina, ma la sua produzione poetica assume le cadenze epiche, profetiche della grande tradizione whithmaniana (anche se non mancano i rimandi, più o meno espliciti, a Lucrezio, Omero o Euripide).
Anticonformista anche nella vita, amava abitare nella solitudine, in mezzo alla natura incontaminata. Fece scandalo la sua relazione con Una Call Kuster, moglie di un celebre avvocato di Los Angeles e tre anni più vecchia di lui: Jeffers la conobbe all'Università, nel 1906, la sposò nel 1913 e i due rimasero insieme fino alla morte di lei, nel 1950.
Nel 1913 Jeffers si trasferì a Carmel, sulla costa della California, dove trascorse il resto della vita e si costruì con le sue stesse mani una casa di pietra, in cima a una scogliera a picco sul mare.
La sua poesia si ispira alla natura selvaggia, non toccata dall'uomo, e trasmette spesso un senso di bellezza tragica, primigenia. Il suo tema centrale è l'abbandono dell'egocentrismo e dell'antropocentrismo: non a caso, è considerato una sorta di ecologista ante litteram.
Non per questo fu alieno dalle vicende politiche, anzi le sue posizioni pacifiste e la sua opposizione all'entrata in guerra degli Stati Uniti dopo Pearl Harbour gli alienarono il favore del pubblico e della critica.
Non posso, per ragioni di spazio, pubblicare i suoi testi più lunghi, che arrivano spesso a contare varie centinaia di versi, quindi mi limito a quattro brevi poesie tratte dalla raccolta del 1948 "The Double Axe and Other Poems" (edizione italiana “La bipenne e altre poesie”, Guanda 1969, traduzione di Mary de Rachelwiltz).
Comprai il libro tanti anni fa, appena arrivato a Perugia, in una libreria che vendeva libri usati e che ora non esiste più. Ne “La bipenne” c'è anche uno dei capolavori di Jeffers, il lungo poema narrativo “Campofame”, dal quale Andrea Pazienza trasse uno dei suoi fumetti più belli e intensi, forse il suo canto del cigno.

* * *

FALCHI FERITI (II)

Preferirei, salvo le penalità, uccidere un uono che un falco; ma al grande codirosso
Non restava che impotente miseria
L'osso troppo fratturato per risanare, l'ala strascinava sotto gli artigli se si muoveva.
Lo nutrimmo per sei settimane, poi lo misi in libertà,
S'aggirò pei colli del promontorio e a sera tornò, chiedendomi la morte,
Non come mendicante, negli occhi c'era la vecchia
Indomita arroganza. Gli feci dono del piombo nel crepuscolo. Ciò che cadde era languido,
Piume di civetta, morbide penne femminee; ma quello che
Si librò, il guizzo impetuoso: gli aironi notturni lungo il fiume in piena strepitarono di paura quando si levò,
Prima che fosse del tutto spoglio di realtà.



AMA IL CIGNO SELVATICO

"Odio i miei versi, ogni riga, ogni parola.
Oh pallide fragili matite a cimentarvi con la curva
D'un solo filo d'erba, o con la gola d'un uccello
Appoggiata al ramo, arruffata contro il cielo bianco.
Oh specchi incrinati e opachi, provatevi ad afferrare
Un solo colore, un fuggevole lampo, o lo splendore delle cose.
Cacciatore sfortunato, pallottole di cera,
La bellezza leonina, le ali del cigno selvatico, la tempesta d'ali".
- Questo cigno selvatico, il mondo, non è preda di cacciatore,
Pallottole migliori delle tue non colpirebbero il petto bianco,
Specchi migliori dei tuoi si frantumerebbero nella fiamma.
Che importa se tu odi... te stesso? Ama almeno
I tuoi occhi che vedono, la tua mente che intende
La musica, il tuono delle ali. Ama il cigno selvatico.



PUNTA CARMEL

La pazienza straordinaria delle cose!
Questo bel luogo deturpato da un mucchio di case da periferia -
Tanto bello la prima volta che lo vedemmo,
Vergine campo di papaveri e di lupina murato da lisci scogli;
Soli intrusi due o tre cavalli al pascolo,
O qualche vacca a fregare i fianchi sulle rocce sporgenti -
Ora è arrivato il guastatore: che importa?
Nulla. Può attendere. Sa che la gente è una marea
Che cresce e a suo tempo decrescerà, e tutta la sua opera
Sarà dissolta. Intanto l'immagine della prisca bellezza
Continua a vivere nella venatura del granito,
Al sicuro come l'oceano infinito che s'inerpica sugli scogli. - In quanto a noi:
Dobbiamo distogliere le nostre menti da noi stessi;
Disumanizzare un poco i nostri punti di vista, ed essere fiduciosi,
Come la roccia o l'oceano da cui fummo ricavati.



UCCELLI E PESCI

D'ottobre a milioni verso riva vengono i pesciolini
Lungo la costa granitica del continente
Nella loro stagione: ma che pacchia per gli uccelli marini.
Che stregoneria d'ali fantasmagoriche
Nasconde l'acqua scura. Pesanti i pellicani gridano "Ha!" come il corsiero dell'amico di Giobbe,
E si tuffano dall'alto, i cormorani lunghi
E neri scivolano sott'acqua e cacciano come lupi nell'opaco verde. I gabbiani stridono, attenti,
Avidi e invidiosi protestano e beccano. Ingordigia isterica!
Nel rimpinzarsi isterico - una massa quasi umana -
Questi uccelli innocui! Come se trovassero oro
Per strada. Meglio dell'oro, si può mangiare: e chi
Tra questi volatili selvaggi ha pietà dei pesci?
Non uno di certo. Misericordia e giustizia
Sono sogni umani, non riguardano gli uccelli né i pesci né il Padre Eterno.
Ma prima di andartene, guarda bene,
Le ali, le bocche fameliche, i pesciolini plasmati dalle onde, lucidi veloci molluschi
Vivono di paura per morire nel tormento -
Loro destino e degli uomini - le isole rocciose, l'oceano immenso e Lobos sull'imbrunire
Sopra la baia: non è forse bello?