Durante
la bassa marea, esploriamo gli scogli che separano la spiaggia dalla
foce del torrente Alma, che si incassa tra ripide rive orlate di
canneti, ai piedi di un alto sperone di roccia coperto di fitta
macchia mediterranea e di enormi agavi, con in cima una villa turrita
che domina Cala Civette e l'intero Golfo di Follonica.
Cerchiamo
tra le basse pozze di marea, rimestiamo la fanghiglia grigiastra,
spostiamo i sassi limacciosi. Frotte di granchietti scappano
saettando in tutte le direzioni.
Per
catturarli, occorre sviluppare due tecniche distinte: l'avvicinamento
e la cattura vera e propria. Gli occhi acuti dei granchi, ben alti ai
due angoli opposti del corpo, percepiscono il minimo movimento e li
fanno scattare fuminei a rifugiarsi negli gli anfratti melmosi, sotto
le pietre dalle quali è impossibile snidarli. Occorre quindi tenersi
bassi, evitare di stagliarsi contro il cielo, arrivare loro da
dietro, protetti da qualche sporgenza o macigno. Quanto alla cattura,
inutile tentare di batterli sui riflessi. Dopo numerosi errori,
arriviamo a elaborare due tecniche. La prima prevede che, giunti di
soppiatto il più vicino possibile alla preda (in silenzio, con
movimenti lentissimi, se necessario con lunghe attese, perfettamente
immobili, finché l'animaletto si fidi a mettere fuori le chele), si
posizioni il retino nella probabile direzione di fuga e si cerchi di
spingercelo, usando le mani o un bastoncino raccolto all'uopo. La
seconda richiede di calare rapida una mano, bloccandolo contro il
sasso, e con l'altra afferrarlo come ho imparato a fare, bambino,
osservando mio padre: da dietro, sotto il carapace, dove le chele
acuminate non possono arrivare. Quelli che conoscevo io erano granchi
di sabbia, giallo-rosati, con l'ultimo paio di zampine a forma di
spatola per nascondersi sul fondale; questi invece sono granchi di
scoglio, neri (anche se spesso verdastri di fango e alghe), con tutte
le zampe acute per aggrapparsi alle rocce.
Uno,
bello grosso, mi sfugge di mano lasciandomi per ricordo una zampina
rattrappita. Nel retino ne finiscono due, entrambi storpi: a uno
mancano entrambe le chele, a un altro due zampe dal lato sinistro.
Quando li prendo in mano si agitano ticchettando, mi solleticano i
polpastraelli.
Scopriamo
infine che i più facili da catturare sono quelli grossi, più lenti
e meno capaci di ripararsi negli anfratti. Molto rari, purtroppo; uno
ne becchiamo, che passeggia per il fondale fidando nel potere
mimetico delle alghe che gli ricoprono il dorso, fino a infilarsi
docilmente, quasi senza coercizione, nel retino.
Completata
l'esplorazione della sponda meridionale, guadiamo il torrente,
saltando sui sassi piatti semisommersi, attenti a evitare la melma
nera in cui si affonda come nelle sabbie mobili. L'acqua, che di
prima mattina era limpida e verde, ora, via via che si avvicinano le
ore più calde, acquista un odore acuto, un misto di chimico e di
marciume. Un enorme granchio flotta sul fondo, morto ma ancora
integro, le chele brillanti di giallo e di rosso. Ci portiamo verso
il mare, dove l'odore si fa decisamente più salino; alghe e patelle
si incrostano sotto le pietre rese lucide e affilate dal lavorio
delle onde. Piccoli gamberetti grigiastri, quasi trasparenti, si
aggirano indaffarati, minuscole bavose scivolano velocissime lungo il
fondo, altri pesci che non so identificare manovrano virando in
banchi sincronizzati.
Sollevando
un grosso masso, le vedo: l'una accanto all'altra, due conchiglie di
murice.
Li estraggo dalla mota, li sciacquo tra le onde. Sono integri, uno
coperto di alghe, l'altro già ripulito. I gusci avvolti in spire
rugose, che si allargano in sequenza fibonacciana, decorati da
escrescenze corniformi.
Sono
i molluschi più preziosi dell'oro, dai quali gli antichi estraevano
la porpora, la tinta dei re e degli imperatori (“Distinguit ab
equite curiam, diis advocatur placandis; omnemque vestem illuminat:
in triumphali miscetur auro. Quapropter excusata et purpurae sit
insania”, Plinio, Nat.
Hist.,
IX, 60). Predatori necrofagi, che forano le conchiglie (“tanto
duritia aculeo est”, sempre Plinio) e liquefanno gli inquilini
iniettando una secrezione acida.
Tornato
all'ombrellone, li disegno a tratteggi incrociati, divertendomi a
riprodurre con cura le minime irregolarità della superficie, le
spire cuspidate, le spine calcaree, l'elegante rastrematura del
sifone. A casa, dovrò lavarli più e più volte per eliminare le
incrostazioni e il fango, ma per settimane continueranno ad esalare
un fortore salmastro, il cui alone resisterà fino nel cuore
dell'inverno.
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