I grossi uccelli di cui è popolata la pineta (che poi, in realtà, solo pineta non è, dato che conserva esemplari sparsi di querce da sughero, che erano la vegetazione originaria di queste coste, prima che l'uomo vi impiantasse i pini marittimi). “Gli uccelloni”, come li chiama Lorenzo. Hanno il corpo di un color caffellatte che sfuma nel violetto, le punte delle ali e della coda a strisce bianche e nere, un tozzo becco anch'esso nero. Il verso è simile a quello delle cornacchie. Ma il tratto più caratteristico è la striscia di piume blu elettrico, picchiettate di nero, sul lato esterno dell'ala.
Scopro trattarsi di ghiandaie (Garrulus glandarius).
Di notte leoni, di mattina coglioni. Si sa, no? Ma a sei anni?
“Lo incuriosiva l'armeggio di un imenottero maschio che visitava solo una certa varietà di orchidea ma non sembrava preoccuparsi in alcun modo di predarne il polline. Passò lunghe ore armato di lente per cercar di decifrare il comportamento dell'animaletto. Scoperse anzitutto che il fiore riproduceva esattamente in materia vegetale l'addome della femmina di questo insetto al punto di presentare una specie di vagina che molto probabilmente emanava lo specifico odore afrodisiaco atto ad attirare e sedurre l'innamorato. L'insetto non predava il fiore, lo stuzzicava, poi lo possedeva secondo i riti di fecondazione propri della sua specie. Nel far ciò si trovava in posizione adatta a che il polline riunito in due ricettacoli venisse a applicarglisi sulla fronte grazie a due capsulette vischiose, e ornato di questo paio di corna vegetali il beffato amatore continuava a passare da fiore maschile a fiore femminile e si affannava per il futuro dell'orchdea credendo di servire la propria specie. Simile parossismo di astuzia ingegnosa poteva far sorgere dubbi sulla serietà del Creatore. A modellare la natura era stato dunque un Dio infinitamente saggio e maestoso, o un demiurgo barocco spinto alle combinazioni più folli dall'angelo della stramberia? Respingendo tali scrupoli, Robinson immaginò che certi alberi dell'isola avrebbero potuto decidere di servirsi di lui – come le orchidee utilizzavano gl'imenotteri – per trasportare il polline. Allora i rami di quegli alberi si sarebbero trasformati in donne lascive e profumate dai corpi inarcati pronti ad accoglierlo.
Percorrendo l'isola in tutti i sensi, finì per scoprire infatti una quillaja il cui tronco – probabilmente abbattuto dal fulmine o dal vento – strisciava a poca distanza dal suolo dividendosi in due grosse ramificazioni principali. La scorza era tiepida e liscia, anzi soffice all'interno della biforcazione la cui ascella era rivestita d'un lichene fine e morbido come seta.
Per molti giorni Robinson esitò sulla soglia di quella che avrebbe chiamato in seguito la via vegetale. Tornava a girellare con aria subdola attorno alla quillaja, riuscendo a trovare un sottinteso in quei rami che si allargavano sotto l'erba come due enormi cosce nere. Infine si stese nudo sull'albero fulminato stringendone il tronco con le braccia, e il suo sesso si avventurò nella piccola cavità muschiosa che si apriva alla giuntura dei due rami. Una inerzia beata lo intorpidì. Con li occhi socchiusi vedeva una pioggia di fiori dalle carni cremose le cui corolle versavano pesanti effluvi che gli davano alla testa. Socchiudendo le umide mucose quei fiori sembravano aspettare un dono del cielo solcato dal pigro volo degl'insetti. Non era Robinson l'ultimo essere della stirpe umana chiamato a un ritorno alle origini vegetali della vita? Il fiore è il sesso della pianta, e la pianta offre a chiunque il suo sesso come ciò che ha di più billante e di più odoroso. Robinson immaginava un'umanità nuova in cui ognuno portasse sulla testa i propri attributi maschili o femminili – enormi, luminosi, profumati...
Ebbe lunghi mesi di relazioni felici con Quillaja”.
(M. Tournier, "Venerdì o il limbo del Pacifico", pp. 117-118)
“Bravo, amore, avete fatto un castello con il papà! E ora, che stai costruendo?”
“No, io dittluggo!”
“Lorenzo, mettiti il cappello, sennò ti cuoci il cervellino e stasera lo mangiamo per cena.”
“Ah ah! Ma tta nella tetta! Come facete a cuocìrlo?”
Utilità pedagogica dei castelli di sabbia, che forniscono nozioni di:
- architettura;
- geometrica teorica e applicata;
- meccanica;
- idraulica;
oltre ad allenare alla collaborazione, alla decisione democratica e al senso delle gerarchie.
Ovviamente, il senso profondo del tutto consiste nel fatto che a divertirsi più di tutti è il papà.
L'essenza della vacanza consiste innanzi tutto in un cambiamento nell'estensione del tempo, direi in una sua espansione elastica. Al tempo frammentario, nevrotico della vita normale si sostituiscono vasti territori di tempo uniformi, orizzontali, privi di cesure.
Esempio: ho cominciato il libro di Tournier sabato e sono (alle 16,30 di lunedì) a pagina 182. Non mi succedeva dai tempi dell'adolescenza, il cui tempo era ugualmente vasto, suddivisibile all'infinito e impiegabile a piacimento, senza che mai si esaurisse.
Nel libro di Tournier, Venerdì spezza la dialettica padrone-schiavo facendo – involontariamente, ma fatalmente – saltare in aria l'isola e tutte le ordinate costruzioni e coltivazioni impiantate da Robinson. Il quale osserva la rovina con un senso di liberazione, quasi di sollievo.
Sempre più mi convinco che i libri Tournier abbiano per me un valore oracolare.
Il “pùttalop”. Ossia, il bungalow, in lorenzese.
Pescare alla cieca, con le mani, nella sabbia del fondale. Trovare una tellina, spaccare il guscio con i denti, mangiarla ancora viva, condita solo con acqua di mare.
Gesti che riportano all'infanzia.
Ricordo d'infanzia: un gruppo di teppistelli che si divertivano a sfondare i castelli di sabbia a calci. Io che un giorno trovo un mattone ci costruisco intorno una splendida torre di sabbia.
Unico rammarico: non essere rimasto lì per assistere allo spettacolo.
In effetti la casa dei doganieri non è il limite estremo della cala.
Lo sperone roccioso è ricoperto di macchia mediterranea (riconosco pini, agavi, fichidindia, forse dei ginepri o dei lentischi, più altre a cui le mie carenze botaniche mi impediscono di assegnare un nome) ed è separato dalla spiaggia da una scogliera artificiale, dietro cui si incunea la foce di un fiume dalle acque verdi, trasparenti e freddissime, popolate da granchi e da pescetti che si muovono in banchi disciplinati.
Al di là, c'è un'altra spiaggetta, e poi un'altra punta rocciosa, molto più grande, massiccia ed avanzata. Ancora dopo ci sono (ma da qui non si vedono) Cala Violina e Cala Martina, raggiungibili solo a piedi da una mulattiera (ci andammo con Daniela in una delle nostre prime vacanze qui: non c'erano i bambini, forse nemmeno eravamo ancora sposati). In fondo, si intavede Follonica, e più oltre un azzurreggiare di alture sempre più trasparenti nella distanza, che arrivano fino a Piombino.
Le ultime propaggini vanno quasi a fondersi con l'estremità dell'Elba, che con il suo profilo domina metà dell'orizzonte.
1 commento:
anch'io avrei voluto esserci all'arrivo del devastatore, me li immagino i castelli che fai, facendo finta di aiutare :)
e soprattutto invidia!
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