Enrico Fraccacreta è del mio paese. Io non lo conoscevo, almeno finché non ho letto questo bel libro dedicato ad Andrea Pazienza, suo amico d'infanzia. Ciò la dice lunga sul mio grado di alienazione dalla realtà nella quale sono nato e ho trascorso i miei primi diciott'anni.
Le poesie che seguono sono tratte da "Camera di guardia" (I Quaderni del Battello Ebbro, 2006), un lungo poemetto dedicato alla memoria dei suoi antenati.
* * *
I
Chi attese all'angolo della sventura
trent'anni prima
nell'ora della guardia abbassata del
crepuscolo
che al mio paese timbra i pettirossi,
vide la luce arancione dalla persiana
sospettare la sequenza a ritroso nei
fossi
dove è diverso l'odore dei tigli.
III
Ci manda tuo nonno, dicevano
tenendosi gli angeli
per futuri risvegli,
lanciandoli ai figli
che non tornano a casa.
Perché è sempre lo stesso
il vento perso del passato
senza una riga netta
lasciata sul capo.
IV
Quando tornano in formazione sparsa,
sette nuvole prima della sera,
ne parlavano le pietre:
credono d'esser guariti
e sono tornati da molto lontano
fischiando in strada
il vento delle stazioni.
Erano loro
dietro le persiane
semoventi,
il più vecchio di
quel nugolo di passeri
era il loro
passaggio
il rombo delle
decappottabili sulla provinciale
era la loro visita
nel modo come i
risvegli annunciavano
interrotti i
profili sconosciuti
erano i loro occhi
le castagne
abbattute sui tornanti
e guadavano sulla
strada
le istantanee del
tempo quando ancora
s'abbassava un poco
ad ascoltarli
nei cristalli dei
saluti.
XVI
Nella camera
schiusa dove il segreto
era una sagoma
indecisa sulla porta,
il mio involucro
cresceva
con le tempie tese
gli occhi verdi
di chi sogna sotto
la pineta,
si voltava tardi
come ad una
richiesta d'aiuto.
Non fosse stato per
l'odore dei gelsomini
non avrei saputo
riconoscerlo
distratto dai
tappeti gialli sotto i pini
da un frate
cercatore lungo la statale
la strada degradava
verso il mare
oltre i vuoti che
non potevo scorgere
sulle balze che non
sapevo scendere
sull'impronta delle
pietre dissipata
come un velo
imperlato sulla roccia
un vapore delle
case una nostalgia
volata nel fumo dei
camini
col colore grigio
degli anni
persi per la via.
La voce parlava col
silenzio
tra i lecci
luccicava:
non lasciate le corolle
inseguite dal giorno
sul colle dei girasoli,
se è il volto degli uomini
consegnato alla notte
palmo a palmo i figli
batteranno l'orizzonte
per scoprirne la luce
arrossivano sui
campi bagliori persi nelle valli,
ogni mia sera
passata
spegneva un lume
alle finestre,
dormendo nel freddo
incompiuto
attendevo la love
luccicare tra i lecci:
non spegnete le lampade
fuori gli usci
io passo sulle loro fiamme tremule
come una grande sofferenza,
conosco di ognuno di voli la lamina
sottile
del volo schivato nel tramonto,
il riverbero sul viso
di quelle notti infantili
quando il cuore
tenuto nella destra
scioglierà il morso
seduto sugli affanni
io non tarderò
lascerò ancora della poca fede il
tarlo,
sul legno trapassato riuscirà
il lampo necessario a illuminarlo.
XVII
Si levava ad ogni
turbamento
su ogni divina
penitenza,
nel fruscio del
mattino
quando toglieveno
le frasche
sfrondando il cuore
dai sospiri,
appariva tra gli
ulivi
nella cornice della
camera
con lo sguardo che
seguiva sino a scuola
quando mi calavo
dal terrazzo
col suo laccio di
misericordia.
Noi tornati dal
sottobosco
sotto il pulsare di
un cedro debole
l'abbiamo vista
poche volte, forse tre
forse solo sentita
in mezzo al grande
tentativo
sul crinale
doloroso della chiocciola,
colei che passa sul
cammino.