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lunedì 31 agosto 2009

dilettanti

Ho rischiato seriamente di fare il critico letterario.
Subito dopo la laurea, decisi di provare un dottorato in Italianistica. Ce n'era uno consorziato tra Perugia e Siena, e io feci domanda senza neanche pensarci troppo su. A dirla tutta, nemmeno mi preparai un progetto di ricerca. E a dirla proprio tutta tutta, non feci neanche quel che una persona con un minimo di comprensione delle logiche accademiche (dote che a me è sempre mancata e continua a mancare) avrebbe fatto: ossia non avvertii nemmeno il docente con cui mi ero laureato, il quale insegnava nello stesso dipartimento dove si sarebbe svolto l'esame di dottorato.
Insomma, ci andai e basta. Feci lo scritto (su Svevo). Poi feci l'orale, in cui improvvisai su due piedi un progetto di ricerca basato sulla mia tesi di laurea. Passai entrambi.
Alla fine, uscirono i risultati. I posti disponibili erano quattro: tre (appresi dopo) riservati ad altrettanti candidati portati dal docente di Siena (non ho difficoltà a dirne il nome: Romano Luperini). Il quarto in graduatoria ero io, senonché la quinta, che aveva quattro punti meno di me, aveva presentato una pubblicazione che le venne valutata cinque punti. A farla breve, mi scavalcò per un solo punto.
Quando si dice il battito d'ali di farfalla: sarebbe bastato che quella candidata non avesse avuto quella pubblicazione. Oppure sarebbe bastato che io avessi detto due paroline al relatore della mia tesi di laurea (me lo disse lui, esplicitamente, quando in seguito lo incontrai: "Pasquandrea, lei è stato ingenuo, e le ingenuità si pagano").
Poi successe che mi misi a insegnare, e poi finii, per ragioni che non sto qui a riassumere, a vincere un dottorato di ricerca in Linguistica. E a fare il critico letterario non ci pensai più.
Rimpianti? Neanche per sogno. Con gli anni ho capito che la letteratura mi piace troppo per farne il mio mestiere. Preferisco pubblicare qui le mie ruminazioni, leggere quel che mi pare quando mi pare e scriverne come mi pare, senza doverne rendere conto a nessuno.

Questa catena di pensieri deriva dalla lettura, negli ultimi giorni, di un dibattito scoppiato su Nazione Indiana. Tutto è partito da un articolo di una ricercatrice universitaria di nome Gilda Policastro (che, ho scoperto poi, ha vinto nel 2003 proprio lo stesso dottorato che non avevo vinto io tre anni prima, e ora lavora proprio qui a Perugia), intitolato Critica letteraria di nomi e di cose e pubblicato venerdì 28 agosto scorso.
L'articolo è, a mio parere, del tutto illeggibile: per lo stile, tortuoso e involuto fino all'inverosimile; per i contenuti, che sono il trionfo dell'autoreferenzialità e delle polemiche da parrocchietta travestite da discussione sui massimi sistemi; e per il tono, trombonesco e supponente. Però ha ricevuto due altri articoli di risposta: uno di Francesco Forlani, lieve e ironico com'è suo solito, e uno di Gianni Biondillo, legittimamente e sanguignamente incazzato.
Ma soprattutto, intorno ai tre articoli si è scatenata una mastodontica discussione, trasformatasi ormai in un'indegna gazzarra di insulti personali, sputi metaforici ed effusioni di intellettualismo onanistico. Tanto per dare un'idea, mentre scrivo queste righe i commenti ai tre articoli sono arrivati rispettivamente a 116 (Policastro), 22 (Forlani) e 56 (Biondillo).
Centonovantaquattro commenti per una discussione sull'aria fritta.
Se questa è la critica letteraria, qui, oggi, allora non posso che confermare: sono contento di essere un dilettante, e mi prendo il solenne impegno di restarlo.

domenica 4 gennaio 2009

dalla camera accanto: photoshoperò #9


Vedi amico
anche ora che è quasi sera
e senza cena
impasto l’ora a venire
che mi pare d’annegare
in un mare di debiti e miseria
non sono più povero
di tutto l’oro del mondo
solo perchè so per certo
il suo ritorno
e dalla striscia gialla
che impedisce il salto
di superare incognito
ed il suo dolore.

Francesco Forlani