J.M. Coetzee, Vergogna, La biblioteca di Repubblica, 2003, 221 pp.; traduzione di Gaspare Bona
(ed. orig. Disgrace, 1999)
Ho avuto questo volume sullo scaffale per più di quindici anni, ma solo ora mi sono deciso a leggerlo, spinto da un impulso che neanch'io saprei spiegare. E lo confesso: raramente ho letto un libro che riesca ad affondare così spietatamente nella realtà e ad essere, allo stesso tempo, così potentemente simbolico.
Siamo in Sudafrica, intorno alla metà degli anni Novanta. David Lurie è un professore di mezza età, che insegna letteratura presso l'Università di Città del Capo. È un uomo mediocre, annoiato, che non ama il suo lavoro. In passato ha avuto un certo successo con le donne, si è sposato due volte e altrettante ha divorziato. Ora è solo e si arrangia con il sesso a pagamento. La sua vita, comunque, nel suo grigiore, può definirsi per lui abbastanza soddisfacente.
Finché un giorno conosce Melanie, una studentessa trent'anni più giovane di lui (e di colore, ma l'etnia nel libro è spesso lasciata indovinare, più che enunciata). David seduce Melanie e se la porta a letto; ma fa anche di peggio: morbosamente invischiato in quella passione senile, continua a ronzarle intorno, finché lei non lo denuncia alla facoltà per molestie sessuali.
Scoppia uno scandalo: David, esposto alla pubblica gogna, viene cacciato con ignominia dall'Università. Si rifugia da sua figlia Lucy, che anni prima se n'è andata a stare in una sorta di comune hippy e ora si guadagna da vivere gestendo una piccola azienda agricola e tenendo in custodia cani.
Con lei, David sembra trovare, se non la serenità, almeno un modo di sopravvivere: aiuta come può nei lavori agricoli e si impegna come volontario in una clinica veterinaria, il cui principale compito è somministrare l'eutanasia ai cani malati o abbandonati. Nel tempo libero, si dedica a scrivere il libretto di un'opera lirica che dovrebbe avere per soggetto gli anni italiani di Byron.
Ma anche questa relativa pace dura poco: tre malviventi (anch'essi di colore) si introducono in casa, stuprano la figlia e cercano di bruciarlo vivo cospargendolo di alcol. Anche qui David si rivela inadeguato: non è riuscito a proteggere sua figlia; non riesce a provare i suoi sospetti circa il coinvolgimento del bracciante nero che li aiuta nella fattoria; non capisce l'atteggiamento di Lucy, che sembra accettare il fatto con rassegnazione e fatalismo. Cerca di chiedere scusa alla famiglia della studentessa che ha sedotto, ma tutto si risolve in un'imbarazzante brutta figura.
Alla fine, dovrà accettare anche la gravidanza di Lucy, rimasta incinta dallo stupro, e la sua ambigua relazione con Petrus, il bracciante nero che si impossesserà delle sue terre.
Lo stile di Coetzee è apparentemente asettico, ma riesce a raccontare con straziante semplicità anche le realtà più sgradevoli: la morte degli animali, lo squallore delle vite sprecate. Sullo sfondo della vicenda c'è il Sudafrica subito dopo la fine dell'apartheid: i rapporti non pacificati tra bianchi e africani, la violenza diffusa, il divario tra i miserabili (perlopiù neri) delle baraccopoli e la borghesia urbana.
David, uomo d'altri tempi, si confronta con sua figlia, che rappresenta la nuova generazione sudafricana. Lui ha sedotto una donna nera, lei è stata stuprata da un nero e forse ne sposerà un altro.
Alla fine, egli non può che subire il suo destino, alla deriva in una realtà che non capisce più. Così come – lui che si era definito “schiavo di Eros” – accetta il declino del suo corpo, la vecchiaia che uccide il desiderio. Le sue controfigure sono la protagonista della sua opera (Teresa Guccioli, l'ex-amante di Byron, che ormai vecchia e ingrassata vive nel ricordo della passione d'un tempo) e il povero cane randagio che gli si affeziona nei suoi ultimi giorni di vita, prima di essere ucciso e incenerito tra la spazzatura.
"Forse è una lezione da accettare", commenta Lucy. "Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un'arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità".
"Come un cane."
"Sì, come un cane".
Un finale che si salva dal nichilismo perché intriso di una profonda pietà.
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