domenica 15 settembre 2013

radici


Stando a ricerche commissionate da mio padre, i Pasquandrea sarebbero arrivati a San Severo, provincia di Foggia, alla fine del Seicento.
La prima traccia nei registri parrocchiali risale al 1681, quando, il 6 agosto, tale Antonio Pasqu'Andrea (sic), originario di San Marco in Lamis, sul Gargano, sposa Camilla Grottola. Il matrimonio genererà due figli: Antonio e Gennaro, e da loro discenderanno i diversi rami della famiglia, che comunque resterà abbastanza compatta. Il ceppo sammarchese risulta estinto ab immemorabili, mentre attualmente i Pasquandrea risultano presenti in varie regioni d'Italia, con concentrazioni particolarmente alte a Milano. Comunque, posso testimoniare che tutti i polloni gemmano dal tronco principale, e sono quindi di solide radici sanseveresi.

Mi fa uno strano effetto scorrere l'albero genealogico e leggere questa lista di nomi remoti, oscuri, che così poche tracce hanno lasciato su questa terra.
Pasquandrea Vincenzo Rocco, nato nel 1761, di professione “mattonaro”.
Pasquandrea Antonio Donato, nato nel 1751 e deceduto il 16 giugno 1823, calzolaio.
I suoi figli gemelli Maria Mattia e Matteo (che è, per inciso, il secondo nome di mio padre), nati il 19 febbraio 1780 dal matrimonio con Cunicelli Anna.
Pasquandrea Antonio Maria, nato il 22 novembre 1807 e deceduto il 20 febbraio 1859, “campagnolo”.
Pasquandrea Michele Pietro, nato il 30 dicembre 1830 e morto nemmeno quattro anni dopo, il 10 settembre 1834.
Pasquandrea Ciro, nato il 5 marzo 1891 in vico Porta Lucera, a poche centinaia di metri dalla casa dove ho trascorso l'infanzia.
Fino ad arrivare a quello che finora era il mio più lontano antenato in linea paterna di cui avessi notizia: il mio bisnonno Matteo (che qui risulta “bracciante”, mentre io sapevo fosse fornaio; risulta invece “fornaio” il suo fratello minore, Vincenzo), nato l'8 agosto 1875 e morto il 28 aprile 1950, sposato in prime nozze con Mazzeo Grazia, deceduta di febbre spagnola nel 1918, e in seconde con Campodipietra Maria Giovanna. Mio nonno Ricciotti (sì, era il suo nome di battesimo: Ricciotti Pasquandrea), nato nel 1915, era il quarto e ultimo figlio del primo matrimonio, a cui seguirono, dal secondo, altri sei fratelli.
Mi fa uno strano effetto, dicevo, non soltanto perché constato che a quanto pare mio nonno, il quale vantava un diploma di pedicure, era, come diceva Guccini, “della sua razza il primo che ha studiato”. Tutti gli altri antecessori svolgevano professioni solidamente plebee (della qual cosa, sia chiaro, vado fiero come di un blasone).
Lo strano effetto deriva dal misurare lo strappo di radici secolari, del quale mi sono reso responsabile nel momento in cui ho installato le mie qui, a Perugia.

Io sono arrivato a Perugia il 1° novembre 1993. Avevo 18 anni, 7 mesi e 29 giorni; diciamo diciotto e mezzo, cifra tonda. Da allora, ne sono passati venti esatti. Si può dire che ho passato il crinale, avendo trascorso più della mia vita in Umbria che non in Puglia. Ma sono due metà qualitativamente diverse: una comprende l'infanzia e l'adolescenza, l'altra la giovinezza e l'età matura.
Detto altrimenti: la prima pesa molto, molto di più. E lo sento, eccome: ogni volta che rimetto piede nel paesello natio.
L'effetto non dura molto, due o tre giorni, poco più. Però è intenso.
La madeleine può essere una parola dimenticata: “m'zzon”, “s'stus”, “cciaffà”. O anche un odore quotidiano: il ragù domenicale di mia madre, la libreria nello studio di mio padre, il selciato caldo nella controra, ma non necessariamente profumi, persino un ristagno d'acqua in certi vicoli, un sentore di muffa che filtra da una porta chiusa troppo a lungo. O il riconoscere ogni pietra di una certa strada, ogni crepa nell'intonaco, il ricordare ogni passo che ha calpestato un certo gradino.
La sensazione è, né più né meno, quella di un improvviso sfondamento, che mette in comunicazione il fuori con una zona interiore talmente profonda che la credevo sepolta per sempre.
Dura poco, dicevo: poi ricordo benissimo perché sono venuto via di lì, e perché non ho la minima intenzione di tornarci.
Ma quando arriva, non posso farci niente.



Nell'immagine: i tetti di San Severo. 
Il panorama è, più o meno, quello che vedevo da bambino,
affacciandomi alle finestre della soffitta.
Manca solo, sullo sfondo, il profilo del Gargano.

1 commento:

alfredo ha detto...

tre giorni,tanto mi dura la sensazione che tu hai descritto così bene.

epperò.....quando poi sono al nord che nessuno si permetta di esprimere critiche men che supermotivate alla cittadelmiopensierodoveprosperalaviteelinvernoèalquantomite :-)