Il primo ricordo che ho di mia nonna è: io e lei appoggiati ai vetri del balcone, in un pomeriggio di fine anni Settanta. Potevo avere forse quattro o cinque anni. Aspettavamo che tornassero a casa i miei, che a quel tempo per tirare avanti facevano il doppio lavoro. Io osservavo le lettere sull'insegna del negozio dall'altro lato della strada e poi le ricopiavo, in ordine rigorosamente casuale, nelle caselle del cruciverba di mio nonno.
Mia nonna si chiamava Italia Palma Addolorata Delle Fave, coniugata Tota. Italia perché era del '16 e l'Italia era appena entrata in guerra; Palma perché era nata il 16 aprile, la Domenica delle Palme; Addolorata, credo, per qualche devozione familiare alla Madonna Addolorata (per ragioni consimili, mia madre si è ritrovata a chiamarsi Maria Rosaria Pompea).
Tutti la chiamavano comare Italia, ma dei suoi tre nomi era il terzo, Addolorata, quello che le si addiceva di più. Aveva una visione prettamente tragica dell'esistenza: tutto era fatale, inevitabile, votato al fallimento. L'altro ricordo che ho di lei è di quando mi portava ad accendere ceri e recitare rosari sotto la statua di Santa Rita (la santa degli impossibili: chi altri?), nella chiesa di San Nicola, che per me rimane tuttora la chiesa di Santa Rita. Nelle foto, anche quando sorride, sembra il ritratto dell'afflizione. Fin da quando ero piccolissimo, ricordo di averla sentita ripetere che ormai era vecchia e per lei era tempo di morire. Doveva essere una forma di scongiuro. La sua esclamazione tipica era "Oh Dio misericordia!", esalata tutta d'un fiato, in un sospiro, come un geyser che ogni tanto aveva necessità di eruttare.
Per cinquant'anni il suo tenace pessimismo fu stoicamente sopportato da mio nonno Paolo (Pavulù, Paoluccio, come lo chiamava lei). Mia madre mi raccontò che si sposarono per accordo tra le famiglie, ma lei non voleva assolutamente farsi vedere prima del matrimonio. Un giorno lui trovò un pretesto per salire a casa sua e lei si chiuse in bagno, strillando e rifiutando di uscire. Mio nonno lo ricordo vecchio e calvo, ma da giovane doveva essere stato un bell'uomo, biondo, alto, slanciato, con gli occhi celesti. Era un ex-ferroviere, raccontava sempre che il giorno che gli Alleati bombardarono la stazione di Foggia lui aveva appena finito il turno e si salvò per miracolo. Mi accompagnava all'asilo in bicicletta, in un sedile montato sopra il manubrio, e il pomeriggio andavamo in stazione a guardar passare i treni, oppure io fingevo di leggergli i libri di favole, che in realtà avevo imparato a memoria. Quando cominciai a suonare il pianoforte, i miei misero lo strumento nello studio di mio padre, una stanza arredata con massicci, minacciosi mobili in legno scuro; io ero terrorizzato da quella stanza, così lui doveva sempre farmi compagnia mentre facevo i miei esercizi. Mia sorella, invece, lo sfruttava come figurante nelle complesse rappresentazioni teatrali che allestiva (il suo ruolo tipico era il lupo in Cappuccetto Rosso).
Mia nonna passava i pomeriggi al balcone, a chiacchierare con le comari, oppure passeggiava instancabilmente (cossa longa, "gambalunga", la chiamava mio padre). A un certo punto litigò con l'altra mia nonna e non si parlarono per anni, finché non scoprirono che nessuna delle due ricordava la causa del litigio. Conobbi anche sua madre, la mia bisnonna Antonietta, nata Capotosto, che morì vecchissima quando io avevo pochi anni (se la portò via un tumore al seno, che aveva rifiutato di farsi curare perché "ormai, alla mia età..."; invece sopravvisse quasi quindici anni). La bisnonna abitava proprio sopra di noi, insieme a un'amica rimasta zitella, alla quale un cancro aveva mangiato buona parte del setto nasale. Ricordo che, per qualche motivo, le portavo sempre uova sode in un pentolino.
Mia nonna aveva studiato fino alla terza elementare, poi si era messa a fare la sarta. Leggeva compitando e scriveva con grosse lettere tremolanti da scolaretta. Parlava solo dialetto. Però i suoi figli erano tutti laureati (quelli sopravvissuti, almeno: prima di mia madre ebbe altre due bambine, vissute una pochi mesi, l'altra un anno e mezzo; erano gli anni Quaranta, succedeva).
Aveva cresciuto due o tre dei suoi molti fratelli e sorelle (sette? otto?), dei quali conobbi solo una sorella, che aveva una rivendita all'ingrosso di bibite e quando la andavamo a trovare mi offriva sempre l'aranciata.
In una famiglia di spilungoni, era l'unica minuscola, credo poco più di un metro e cinquanta. Aveva dei begli occhi grigio-verdi, che oggi mi sembra di rivedere in quelli di mia figlia. E aveva anche una naturale disposizione verso il patetico. Ogni occasione era buona per versare fiumi di lacrime; di un film, il massimo complimento per lei era dire "ho pianto", e dagli anni Ottanta divenne una vorace consumatrice di telenovelas.
Nel 2006, a novant'anni suonati, si sobbarcò cinque ore di automobile fino a Perugia per assistere al mio matrimonio. Si era fatta la messa in piega e, fino alla fine del pranzo, rifiutò di indossare alcunché sulla testa (la giornata era fresca, nonostante fossimo in giugno), per non guastare il lavoro del parrucchiere.
Abitava in una vecchissima casa del centro storico, a cinque minuti di strada da casa mia. Per arrivarci si attraversava un vicolo (ci viveva uno scugnizzo torvo e riccioluto che ogni volta mi minacciava di tremende punizioni se avessi osato ripassare di lì) e poi si passava davanti all'enorme portone di un magazzino (almeno, io lo visualizzo enorme, nero, buio), dove viveva un cane di cui ricordo solo gli occhi feroci, l'abbaiare furioso, il tintinnio della catena.
A casa di mia nonna gli scalini erano altissimi e strettissimi. Era piena di cose, cianfrusaglie vecchie di decenni: un modellino di gondola (ricordo del viaggio di nozze?) con il remo sostituito da una cannuccia; un pupo siciliano in miniatura; un indefinibile oggettino di ceramica con su scritto “Souvenir di Sulmona”; una grande foto incorniciata del mio bisnonno Felice, morto nella Grande Guerra; libri per bambini degli anni Cinquanta e Sessanta, di quando erano piccoli mia madre e i miei zii (chissà che fine avrà fatto quell'edizione del libro Cuore; e I ragazzi della via Paal; e I figli di Jo; e Ventimila leghe sotto i mari; e quel libro su Pompei, con le foto degli scavi e i fogli di cellophane trasparente da sovrapporre, che rivelavano la forma originale degli edifici...); una bomba a mano vuota, reperto di chissà quale guerra; una cyclette comprata da mio zio e mai usata; una sedia a sdraio vecchissima e cigolante; una Madonna di Lourdes in plastica trasparente, piena di acqua benedetta; un meccano; una scacchiera per la dama; un lume da comò con il globo biancastro, lattescente; un armadio nel sottotetto, pieno di valigie di cartone; un cavallino di bronzo, pesantissimo. Per me, un paradiso.
In cucina c'era sempre una gabbia con un canarino. Uno di questi canarini lo feci morire io, perché gli diedi da mangiare l'impasto che mia nonna aveva preparato per le orecchiette domenicali. In un angolo c'erano delle mele cotogne messe a seccare. Accanto alla cucina c'era una dispensa a cui si accedeva salendo tre o quattro scalini, e da lì partiva una scala che dopo pochi metri finiva, misteriosamente, contro una parete. Ricordo anche l'androne, altissimo, con un lucernario dai vetri rotti, tappati con il cartone. C'era una radio anni Cinquanta e un televisore in bianco e nero, credo uno degli ultimi esemplari sopravvissuti al mondo.
Ma il mio regno era la soffitta, nera di penombra e di polvere incrostata, con il pavimento di mattoni grezzi, dove i miei nonni ogni estate si ritiravano per giorni a cuocere e imbottigliare la salsa. Lì giocavo a freccette con un vecchio bersaglio ormai bucherellato come un gruviera, oppure tentavo invano di allargare una molla da ginnastica completamente arrugginnita, o giocavo a bocce sul terrazzo. Il terrazzo dava sui tetti di San Severo, le tegole erano piene di licheni e millepiedi, e in un angolo c'era un pollaio ormai vuoto, sempre chiuso.
Mia nonna praticava fedelmente una parsimonia d'altri tempi. Scendeva le scale al buio per non sprecare la luce, a rischio di rompersi l’osso del collo. Aveva la carta da parati tutta pezzata, perché da sempre riparava gli strappi con ritagli di colori vagamente simili (e non comprava nemmeno la colla: impastava acqua e farina). Credo non avesse fatto un solo lavoro in casa negli ultimi trent’anni: i muri erano verdi d’umidità, i tubi dell’acqua talmente arrugginiti che mio zio, che viveva con lei (era il figlio più piccolo, rimasto scapolo, il cruccio della sua vita), si beccò la legionella.
Conosceva proverbi ormai dimenticati, parole che nessuno più capiva, e ricordava a memoria tutti gli scongiuri contro il malocchio. Apparteneva a una razza longeva: tutte le donne della famiglia avevano sfiorato il secolo. Lei stessa resse bene fino a un paio d'anni fa; poi, come succede spesso, ebbe un rapido collasso, tutto in una volta. Quando si ammalò, nessuno sapeva dove tenesse i risparmi (erano in serbo per il sempre sperato matrimonio del figlio, ovviamente). Per convincerla a tenere la badante, mia madre le disse che la pagava cento euro al mese. Lei ci credette, o finse di crederci.
L’ultima volta che l’ho vista era un mucchietto d’ossa e pelle, la faccia sepolta in un dedalo di rughe. Non parlava più, ma mi riconobbe e pianse.
E’ morta un anno fa, il giorno dopo Ferragosto, a novantadue anni. Aveva attraversato buona parte del Novecento e anche uno scorcio di questo nuovo secolo. Al quale, chiaramente, non apparteneva.
domenica 16 agosto 2009
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6 commenti:
sai quanto adoro le storie di vecchi, sergio, mi commuovono... e in questa poi ci trovo anche tanto della nostra terra...
mi piace anche tanto la poesia qui sotto... ti trovo molto di buonumore ultimamente e mi fa piacere...
un saluto e un augurio per un buon san rocco...
Grazie Antonio.
Sono sempre di buon umore quando sono impegnato.
ciao sergej.. sono un utente di texwiller.forumfree.org, ma frequento da semplice visitatore anche TWO.. ogni tanto mi capita di passare anche da queste parti. Il tuo blog è piacevole e non è mai banale..
mi ci ritrovo nel tuo racconto.. ho la fortuna di avere anch'io una nonna, quest'anno compie ormai 97 anni.. e, beh, è ancora un piacere andarla a trovare.. questi nonni.. hanno così tanto da raccontare! :)
Grazie mille, ilLord. Sei sempre il benvenuto, ovviamente.
mi piace molto quello che scrivi di tua nonna,sergej...a me è capitato di vivere solo con mia sorella e con mia nonna,a calatafimi....i miei venivanoa trovarci solo una volta al mese,in un (anonimo?)fine settimana,il resto dei giorni li passavamo con lei....alcune cose che hai detto di tua nonna le ho percepite anche nella mia,come la parsimonia d'altri tempi...mi piace quella frase che tua nonna ripeteva sempre,e altri particolari insoliti ma allo stesso tempoo comuni che hai raccontato...a presto...
Ciao Sergej.
E' la prima volta che lascio un post sul tuo blog, ma il tuo ricordo-racconto su tua nonna mi ha molto colpito e commosso. Ho ritrovato molto tratti in comune con i miei nonni, scomparsi alcuni anni fa e ai quali ero (e sono tuttora), molto legato.
E' una sensazione strana, ma al tempo stesso molto bella, scoprire che puoi condividere, sia pure in una certa misura, ricordi e senzazioni che dovrebbero essere solo tuoi anche con altre persone.
Come ha scritto un altro visitatore, "questi nonni... hanno ancora così tanto da raccontare"!
Grazie per questo bel regalo.
Con affetto, Giancarlo
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