Martedì 7 luglio
Alle cinque del mattino
mi sveglia il solito sogno: le membra pesanti come marmo, trascinarsi e non riuscire a camminare, come fossi legato a un macigno.
Il soffitto della veranda è stato colonizzato da decine di grossi ragni, tozzi e pelosi. In ogni interstizio delle travi hanno costruito nidi tubolari; dall'imboccatura spuntano nere le zampe anteriori in agguato.
Pensare che i ragni mi fanno anche un po' schifo. Ma mi affascinano le loro architetture aeree, impalpabili, quegli intrecci perfetti di fili tutti paralleli, equidistanti, concentrici, simili a pentagrammi disposti in circolo.
Siamo in piscina, ma quest'anno la bimba - che a sei mesi era un pesciolino e l'anno scorso giocava tranquilla con il culetto a mollo nella battigia - è terrorizzata dall'acqua. "No! no! acqua no!", ripete scuotendo con forza il ditino teso.
Verso l'una le nuvole cominciano ad addensarsi. Cade qualche goccia, poi smette; la laguna diventa color acciaio e si increspa quasi avesse la pelle d'oca; uno sciame di mosche vortica intorno al filo dei panni; il vento cresce e cala.
La tensione dura un'ora, poi scoppia il temporale, cadono aghi di pino, e nello stesso momento un raggio di sole illumina la veranda.
Pomeriggio a Grado. Una linea netta di nuvole violacee riproduce nel cielo il profilo della costa sottostante.
Mercoledì 8 luglioLa notte, violento acquazzone, seguito da una pioggerella insistente.
Alle tre mi sveglio. Ho freddo, mi inseguono pensieri depressivi. Indosso un pigiama più pesante, leggo un po', riprendo sonno.
Sogni precipitosi. In uno sono, chissà perché, a Buenos Aires, insieme ad A. e al coro.
Finito di leggere l'
Antologia della letteratura fantastica.
Le nove del mattino. Sul divano del soggiorno. Da fuori arriva una luce umida, giallastra, malaticcia. Il campeggio è perfettamente silenzioso. Il frigorifero ronza. D. e la bimba dormono. Non ho fatto colazione perché voglio mantenermi ancora per un po' in quello stato di leggerezza fluttuante che dà il digiuno. Leggo, e mi sembra che le parole aderiscano con facilità.
Verso le undici il cielo si apre. Decidiamo di fare l'ultima gita. Passiamo l'Isonzo, giallo, gonfio per le piogge della notte.
Discesa nel
cul-de-sac triestino. Traffico di caoticità quasi napoletana. Strade a tre corsie con continui attraversamenti a raso da entrambe le parti, ovunque motorini impazziti, guidatori aggressivi e impazienti, cinica indifferenza per i pedoni. Totale assenza di segnaletica stradale.
San Giusto bisogna guadagnarsela, arrampicandosi per stradine erte e sconnesse. Il giorno è limpido, senza una nuvola; in piazza Unità il vento di terra fa filare il passeggino come una barca a vela.
La bimba cade, batte il labbro. Un rivoletto rosso le tinge gli incisivi.
Torniamo a casa stravolti.
Tra le ombre della sera passa un'ombra più scura: un gufo che stringe tra le zampe un topo.
La bimba piange senza motivo, D. ha gli occhi pesti, io un principio di indigestione. Crolliamo addormentati alle nove e mezza.
1 commento:
se dovessi dare un titolo a questo tuo racconto lo chiamerei "La ragione del ragno".
c'è un posto, da quelle parti, non amato dal vento dai svincoli e dal turismo di massa: Portogruaro. girare a lungo, di notte, dopo la chiusura di negozi.
trasformista
Posta un commento