Non so perché non si parla mai di Leonardo Sinisgalli.
Forse non sarà tra i grandi del Novecento, ma le sue poesie ricordano quelle del suo conterraneo più famoso, Rocco Scotellaro, per la concretezza delle immagini riprese dalla realtà contadina lucana.
Ho trovato un po' di sue poesie in giro e mi piaceva condividerle.
Questa è la prima.
* * *
PASQUA 1952
Le sere d'aprile son fredde e tristi
quaggiù nei cameroni di casa mia.
Mio padre si muove appena tra il focolare
e la latrina. Lo portiamo a braccia, lo svestiamo
gli sciogliamo le scarpe per farlo dormire.
Le pendici del Serino sono ancora bianche di neve.
Ci siamo tappati nelle stanze, a stento
ci arrivano dalla piazza i rintocchi dell'orologio
Il fumo ci arrossa gli occhi,
è umida di bosco la legna mortacina.
Cristo risorgerà dal sepolcro di iris,
i messaggeri ce l'hanno annunziato
bussando alle imposte.
I piccoli pastori ci portano i primi
asparagi dalle spinete, l'ortolana
scalza è entrata con un cesto di fiori di rape.
Aspettavo da trent'anni una Pasqua
tra i fossi, il muschio sopra i sassi,
le viole tra le tegole. Ma i morti
dormono nelle bare di castagno,
sugli archi delle stalle e dei porcili,
sulle crociere delle cantine e dei pollai.
Fanno fatica ad abbandonare per sempre
le nostre sedie, i nostri letti,
dove vissero tanti anni di lenta agonia.
Lungo le strade gli stracci
neri delle vesti sono più silenziosi.
Un gruppo d'uomini brucia col ferro
il grumo di veleno nella bocca dell'asino.
M'ero messo in viaggio verso una Pasqua
in fiore, incontro al Cristo purpureo
che solleva il coperchio di grano bianco
cresciuto nelle grotte.
Tutto quello che io so non mi giova
a cancellare tutto quello che ho visto.
I fanciulli soffiano sul carbone
perché dal piombo fiorisca
il simulacro della rosa.
Vanno e vengono per casa le visitatrici
a portarci i sarmenti per il fuoco,
le ceste d'uova, le parole di cordoglio.
C'è sempre nelle stanze il ricordo
di un lutto recente o il gemito
di un vecchio malato.
Mio padre ha il sangue greve.
Si duole della sua immobilità.
Lo caricheranno sulle spalle i miei nipoti
e un giorno, un tiepido giorno di là da venire
lo porteranno alla vigna. Lo porteranno
a mezza costa, sulla sedia
di braccia intrecciate.
Ci è toccata questa valle, questa valle
abbiamo scelta per tornarci a morire.
Dove Gesù risorgerà con molta pena
noi speriamo ardentemente di sopravvivere
nel cuore dei congiunti e dei compagni,
nel ricordo dei vicini di casa e di campo.
Come fischiano le rondini
intorno alla chiesa di San Domenico
semibuia il giovedì delle tenebre!
domenica 10 maggio 2009
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3 commenti:
e pensare che qualcuno vorrebbe l'Italia senza il sud. Federico II si sta rivoltando nella tomba. e anch'io mi sento poco bene :-)
eh sinisgalli è proprio un grande! (vero che non lo nomina mai nessuno)... magari gli manca il guizzo di genio che all'improvviso ti abbaglia in scotellaro ma il suo verso è sempre sicuro, cosa che non si può dire dell'altro...
poi c'è che scotellaro piace molto perchè è così "folcloristico" e "arcaico" a volte, proprio come molti si immaginano ancora il sud (sempre uguale agli anni '40!) e la cosa strana è che a immaginanarselo così sono anche molti che dal sud se ne sono andati via e si immaginano così la terra che hanno lasciato, mentre qui è cambiato tutto! cambia di continuo! (anche se forse non sembra)
la risposta al motivo dell'oblìo è già nelle tue parole: "contadino" e "lucano".
uno del Sud
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