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sabato 29 agosto 2009

la fine del mondo


Sylvia Plath, Finisterre
(da "Crossing the Water", 1961)

Questa era la fine del mondo: le ultime dita, nocchiute e reumatiche,
contratte sul nulla. Nere
rupi ammonitrici, e il mare che esplode
senza fondo, o nulla sull’altra sponda,
sbiancato dai volti degli annegati
Ora è soltanto buio, un ammasso di rocce.
Soldati scaricati da vecchie, caotiche guerre.
Il mare gli cannoneggia nelle orecchie, ma non indietreggiano.
Altre rocce celano rancori sotto le acque.

Le rupi sono orlate di trifogli, stelle e campanule
come ricamate da dita vicine alla morte,
quasi troppo piccole perché le nebbie se ne diano pensiero.
Le nebbie sono parti dell’antico armamentario.
Anime, cullate nel fragore apocalittico del mare.
Strappano le rocce all’esistenza, poi le fanno risorgere.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Le attraverso, mi riempiono la bocca di ovatta.
Quando mi liberano, sono imperlata di lacrime.

Nostra Signora dei Naufraghi incede verso l’orizzonte,
la gonna di marmo gonfiata in due ali rosate.
Un marinaio di marmo si inginocchia costernato ai suoi piedi, e ai piedi di lui
una contadina vestita di nero
prega il monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
le labbra dolci di divinità (1).
Non sente ciò che dicono il marinaio o la contadina.
Ama la bellezza informe del mare.

Fiocchi color gabbiano sventolano alla brezza marina
accanto ai chioschi delle cartoline.
I contadini li ancorano con le conchiglie. Ti dicono:
“Ecco i graziosi ninnoli che il mare nasconde.
Piccoli gusci trasformati in collane e bamboline.
Non vengono dalla Baia dei Morti, laggiù,
ma da un altro luogo, azzurro e tropicale,
dove non siamo mai stati.
Ecco le nostre crêpes. Mangiàtele prima che si freddino”.

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(1) Gioco di parole: “divinity” è anche il nome di un dolce simile al torrone.